Arsi vivi tra le fiamme, inceneriti dai tronchi e dai rami degli ulivi, l’albero sacro custodito e difeso fino in ultimo, nell’estremo tentativo di arginare un incendio altrimenti maledetto, violento, indomabile. Strenuamente hanno cercato di salvare il loro uliveto contadino dalla furia infernale, proteggere ciò che altri chiamano in cronaca “proprietà privata”, ma che, quasi per verghiana memoria, era nient’altro che la loro roba, quella parte della propria vita che la donna e il nipote trovati morti dai soccorritori, in vecchiaia avrebbero voluto vedere seduti “sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia”.
di Vito Barresi
Lungo il sentiero che fa costa al biviere di San Lorenzo, provincia di Reggio Calabria, in area grecanica, i militari della Benemerita non hanno potuto far altro che constatare il triste accadimento della giornata.
Stesi a terra le ceneri e i resti di due persone, una donna di 53 anni e il nipote di 34 (QUI), sono stati ricoperti dai lenzuoli funebri dopo essere stati carbonizzati dal fuoco divampato implacabile nel loro terreno, poi dilagando senza sbarramenti dalle stoppie riarse che circondano la piccola proprietà in contrada Guttà, proprio sotto i contrafforti aspromontani.
In una atmosfera surriscaldata dagli incendi di queste settimane, davanti alle squadre giunte sul posto, è apparso lo squarcio di una scena da film apocalittico, tra pascoli deserti e odore di aranci bruciati, sotto un cielo fosco d’estate, nelle terre lontane dove si è consuma una tragedia tutt’altro che “privata”.
Non uno dei tanti fuochi da spegnere col getto in altezza di quintali l’acqua da un canadair della Protezione civile, il rogo di un uliveto che ha mandato in fumo non solo tutta una vita di un ceppo famigliare, ma un monito che segna simbolicamente e concretamente l’irrompere dell’antropocene in quel che resta dell’antico mondo contadino calabrese.
Proprio tra i residui comunitari e familistici di quel cosmo arcaico, violentemente cancellato dalla modernizzazione agricola dello scorso secolo, il Novecento pasoliniano in cui scomparvero le lucciole e divamparono vasti e devastanti gli incendi dolosi, natura e fuoco sono divenuti nemici estremi, quando un tempo erano uniti nell’inestricabile e lunga linea di una casuale e fatale connessione biologica, simbioticamente collegati in una catena vitale e rigenerativa organica, evolutiva, distruttiva ma riproduttiva, carbonizzante e fertilizzante.
I contadini calabresi, e con loro quelli di ogni regione agraria nazionale, al fuoco e alla terra bruciata erano abituati da millenni, dall'età bizantina ai nostri giorni come lo raccontava, con cenni biblici alla leggenda di Re Salomone, un agricoltore calabrese al grande storico Emilio Sereni che mise in testa al suo indimenticabile capolavoro “Terra Rossa e Buoi Rossi”.
Nel mondo grecanico “oikos” era la casa, una parola che da queste parti ancora in molti ricordano e pronunciano. Oggi è la stessa che significa ecologia, difesa della natura, tutela dell’ambiente. Quella natura che il fuoco, uno dei quattro elementi insieme a terra, aria e acqua, un tempo rigenerava ma che ora solo distrugge implacabilmente ogni cosa.
S. Lorenzo è uno di quei tanti comuni calabresi polverizzati dalla marginalità dall’abbandono, in gran parte disabitato, dove ancora vivono pochi nativi attaccati ai ricordi e alle tradizioni. Non è solo il fuoco che lo ha distrutto ma la vita moderna che gli ha bruciato l’anima antica.
Non del tutto, fortunatamente, perché oggi i superstiti della passata civilizzazione rurale, i discendenti delle vittime, piangono e sono in lutto.
Il loro funerale sarà non solo un mesto rito di raccoglimento, ma anche il momento per dire basta ai roghi infami. Per salvare il pianeta bisogna spegnere gli incendi, qui in Aspromonte come in Amazzonia, occorre una svolta mentale e culturale, spirituale, oltre che economica e sociale.
Tra i vicoli del borgo l’odore di bruciato si spande nel silenzio, come dissolto a tratti, spezzato dalle nenie del dolore e da qualche preghiera di speranza, che sono appello alla tregua ecologica tra l’uomo e il bosco, l’agricoltura e il pascolo, contro ogni attentato alla foresta e alla montagna aspromontana, luoghi meravigliosi e sacri che aspettano di non essere più profanati dall’incuria e dallo sfruttamento.