Nemico di ogni retorica, avversario del pittoresco e dell’esotico vi è nelle fotografie di Caio Mario Garrubba tutto il sapore di un’epoca, una poetica sorgiva estratta dalla pudicizia e dalla sensualità di ciò che era il mondo prima del crollo del Muro di Berlino. Diremo inoltre che gli scatti sono stati per lui la linfa vitale della realtà.
di Vito Barresi
Coerenze stilistiche e linea di condotta artistica di questo grande fotografo internazionalista del Novecento, sono ora intelligentemente celebrate nella mostra in corso a Palazzo Merulana fino al 28 novembre (“Caio Mario Garrubba - Freelance sulla strada”), promossa dall'Archivio storico Luce/Cinecittà.
116 scatti, tra foto, stampe e pellicole, raccolte sul campo dall’inizio del 1950 fino al 1980, utili a riaccendere le luci su un grande professionista della fotografia mondiale, di schiette e dichiarate origini calabresi, cittadino onorario di Diamante, napoletano di nascita ma di salde radici genealogiche e famigliari in quel di Strongoli, all’epoca provincia di Catanzaro.
Immagini forti, politicizzate, profonde. Foto che rispecchiano racconti, momenti che incantano, trasportano: la translucida freschezza della stazione ferroviaria di Ost Berlin nel 1956; Mosca svelata silenziosa città d’inverno, dove anche un dettaglio diventa il nucleo attorno al quale si costruisce un nuovo dipinto, come quella volta quando dalla valigetta di cartone di un fanciullo sotto i fiocchi di neve fece capolino protetta una colomba bianca.
E poi Napoli, teatro eterno di sceneggiate di fede e notabili; il bacio voluttuoso tra i vicoli bianchi di Casablanca tra una ragazza e un soldato; Praha con la borghese e straniata eleganza degli apparatnik che aspettano il tranvai; Madrid ripresa con un occhio che fa pensare a un vero e proprio Borges dei fotoreporter.
Foto che richiamano in una certa misura le pose della pittura classica e che attingono alla vita a piene mani. Come in Estremadura nel 1954, a Warszawa nel 1968, a Chong Qing nel 1959, a New York 1960, tra gli operai metallurgici di Katowice nel 1957 o in Cina con la classe operaia nel Wuhan.
Fotografo eminente del “sovietic dream” e delle speranze del socialismo reale, nelle sue foto intriganti e indimenticabili ci fornisce l’altro elemento mancante alla rappresentazione, altrimenti unipolare e parziale, non solo di quel mondo ma della storia, tutt’ora in giudicato, dell’intero secolo breve: l’originale dimensione estetica e umana, tenace e palpitante, dell’immensa e sconosciuta umanità dei popoli socialisti.
Che, forse, solo dopo che il comunismo sovietico è miseramente finito in frantumi, persino insultato ed espulso dai musei della storia trionfante, riusciamo a cogliere il significato complesso della loro potenza evocativa, la straordinaria forza di suggestione.
Qui vi è tutta l’eccezionale rilevanza di tale archivio fotografico, unico nel suo genere, per aver attraversato dal di dentro e senza pregiudizio politico l’esperienza complessa delle società socialiste, nate dopo la Rivoluzione d’Ottobre.
Soltanto incidentalmente, osserveremo quanto stringente sia l’attualità di questa mostra intrisa di un fiato di nostalgia, per i volti asciutti e schietti di una generazione, che a confronto con l’oggi appare gettata dalla modernizzazione nell’orfananza e nel rimpianto del “paradiso perduto”, in questi tempi di più glaciale globalizzazione, in cui milioni di uomini hanno sperimentato talvolta tragicamente l’inedita incertezza dell’era post comunista.
Infine, nel notevole repertorio di Caio Mario Garrubba tra i profumi che si comprano a Parigi e la vodka che si beve a Mosca, un omaggio alla propria antica terra di Calabria. Attimi indimenticabili, quasi un’icona universale del mondo contadino di ogni sud.
Amaro segnacolo di un genocidio culturale della vita quotidiana dei nostri braccianti, delle raccoglitrici di ulive, del clero bizzarro e mascolino, delle vedove in nero con i capelli mesciati di rosso, conclusivo e toccante appello almeno alla sapienza del ricordo.
Nelle fotografia di Caio Garrubba vi è una durata narrativa, un’elevatissima qualità stilistica in cui sensibilità giornalistica e cultura letteraria si innestano e combinano in un tessuto di citazioni, richiami, riprese. In un millesimo di secondo solamente una foto, comunque libera da ogni peso e zavorra discorsiva.