Se ne sentono di note che hanno ancora inciso il ‘sudsoundsun’ del mitico Rino Gaetano. Uno di quelli che a suo tempo, oltre a portare le scarpe da tennis all’insegna del Jannacci, non disdegnava ai piedi neanche le Clark che tanto facevano tendenza di francescana e pop rivoluzione, il classico scarponcino in pelle scamosciata desert boot, cioè lo stesso che faceva sussultare a destra, ancora dopo Fiuggi, qualche erede dell'estrema storica giunta al doppiopetto, tanto da fargli dire 'dai sbrighiamoci che ho da fare con l’inviato del giornalone al seguito…’ Ma Rino, si sa, per certa ‘intellighenzia' se non era ‘neo-fassista’ ma comunque che gran qualunquista con nunteregghepiù….
di Vito Barresi
Di Rino e della ricerca di Dio nelle sue “canzonette” un po’ tutti evitiamo di parlarne. Molto probabilmente per non trovarci disallineati rispetto alla logica del consenso in breve.
E poi, per mettere la polvere ideologica sotto il tappeto, persino nascondendo quei pregiudizi antropologici molto radicati che servivano a dipingerlo grottescamente per un tale
“Rino, un calabrese emigrato a Roma, è un furbo di tre cotte ed è riuscito (quasi) a toccare i vertici del successo con le trovate di tutti i giorni, con materiale che non ha nulla della trasfigurazione artistica, niente di particolarmente fantasioso e sconvolgente, con le parole, i gesti, le smorfie, i tic di tutti i giorni, con il banale insomma”.
Che pensare a Rino Gaetano “giullare francescano” sia interpretazione non in voga, persino irridente e irriverente, comunque, è evidenza macroscopica, tuttavia e paradossalmente, proprio nello stile del personaggio.
Dunque, ipotesi suggestiva per quanto urgente, Rino Gaetano, un ragazzo cresciuto da buon cattolico, un giovane un po’ spaventato e spaesato, confuso e disorientato dalle ciniche leggi del successo discografico?
Va da se che del grande artista romano-calabrese, a quaranta anni dalla sua tragica scomparsa se ne parla a Napoli dove, evviva, è da poco riaperto il Teatro Diana al Vomero, con una stagione sfavillante di ripresa e successo.
Rino Gaetano forever, gingle pubblicitario della grande banca dei banchieri di contrada fino al supermercato che tanto piace alle nuove minoranze dei migranti, bulgari rumeni serbo-croati ecc. ecc., entrati e usciti in trance dall’oltrecortina dei totalitarismi comunisti, canto quel motivetto che mi piace tanto, senza fine senza un attimo di respiro per sognare, per potere ricordare, e che seduce sempre anche adesso leggendo il libro a lui dedicato dal giornalista e scrittore Michelangelo Jossa, per le edizioni Hoepli.
Sullo sfondo freudiano dell’infanzia e non solo a Crotone, la scuola apostolica Piccola Opera del Sacro Cuore di Narni in Umbria, in cui l’adolescente mette nel suo cuore il deposito senza tempo delle fede cattolica, il Folkstudio di Roma, la città eterna, la camera del suono e del silenzio, in via Garibaldi a Trastevere, Sanremo e Boncompagni che ancora non sapeva che non è la Rai, indecifrabile anche dietro l’angolo di Maurizio Costanzo, e poi, poi l’alba amara sulla Nomentana, la brutta fine di un sogno che ha chiuso gli occhi a un menestrello visionario.
Identità geniale quella di Salvatore Antonio Gaetano, detto Rino che veniva dalle Rive dello Jonio, musica della Magna Grecia, cantautore di scuola pitagorica, testi e riff con continui rimandi esoterici, la sottile ironia opposta, distaccata, persino contemplativa, contro le orrende bugie degli anni Settanta.