Aristotele, nel secondo libro della Politica, notò come spesso accada che a ciò che “appartiene a tutti in comune” si presti “poca attenzione”, con il risultato frequente del deterioramento o, al limite, della distruzione del bene in questione. Che tale sia in molti casi il rapporto esistente tra gli esseri umani e le risorse naturali che essi condividono è non solo cosa nota fin dall'antichità, ma realtà quotidiana già a partire dalle tribù di cacciatori-raccoglitori del Pleistocene.
di Natale G. Calabretta
Alcuni tra i grandi mammiferi - come i mammut, i grandi orsi e i bradipi giganti - furono con ogni probabilità le prime vittime della difficoltà che gli esseri umani hanno nell'utilizzare in comune le loro risorse.
Con la scoperta dell'agricoltura, il crescere della densità demografica e il fiorire delle prime civiltà, la gestione dell'acqua, del suolo, delle foreste e delle aree impiegate per la pesca diventò una dura sfida da affrontare per le comunità e per gli stati dell'antichità: sfida il cui risultato determinò, in molti casi, la sopravvivenza stessa dei gruppi dipendenti da tali risorse.
Singole comunità e intere civiltà, dal bacino mesopotamico, alla Mesoamerica, all'Estremo oriente, furono così vittime della loro incapacità di comprendere per tempo i segnali provenienti dall'ambiente e di porre rimedio al suo declino prima che ciò si traducesse in danni inesorabili al suolo e alle altre risorse indispensabili ad una produzione agricola sufficiente per alimentare densità di popolazione elevate e per creare surplus tali da mantenere i gruppi sociali importanti, ma improduttivi tipici delle società organizzate: governanti, sacerdoti, filosofi, commercianti e militari.
Molte civiltà, una volta danneggiate le basi ambientali della loro prosperità, si trovarono indifese di fronte alle pressioni dei loro bellicosi vicini e all'esplodere del conflitto interno, a sua volta fomentato dal declino della produttività agricola.
Secondo diversi studiosi, tale fu, sia pur semplificando, il percorso probabile che portò alla fine delle città Stato sumere e della cultura Maya e che contribuì al declino e alla caduta prima della civiltà della Grecia antica e poi dell'impero romano che ne aveva ereditato la cultura: alcuni esempi, tra i numerosi possibili, di come relazioni non sostenibili tra uomo e ambiente portino nel tempo ad effetti imprevisti e catastrofici.
Il modello di gestione pubblica
delle risorse comuni
Il ripetersi di casi simili a quelli descritti sopra portò nei secoli filosofi, pensatori e scienziati ad interrogarsi e a dare risposte diverse sui motivi delle difficoltà umane nel creare relazioni sostenibili con l'ambiente.
Il modello esplicativo oggi più utilizzato è quello frutto del lavoro di Garrett Hardin che nel 1968 pubblicò sulla nota rivista Science un articolo destinato a cambiare il nostro modo di considerare l'utilizzo delle risorse naturali: “The tragedy of the commons”.
I commons sono quelle risorse naturali che, per impossibilità fisica o per impedimenti istituzionali, non possono essere suddivise tra gli utilizzatori e vengono perciò da loro adoperate in comune.
Secondo Hardin, il fatto stesso che siano di libero accesso e che non esista la possibilità di limitare il numero degli utilizzatori porta a una situazione dove il comportamento razionale di ciascuno di loro non può che causare il degrado o la distruzione della risorsa stessa, poiché essi si ritrovano intrappolati in una “tragedia della libertà” basata su di un irrisolvibile conflitto tra interessi individuali e interesse collettivo, con l'inevitabile prevalere dei primi sul secondo.
La soluzione proposta da Hardin al problema della “tragedia dei commons” è la gestione pubblica delle risorse, in altre parole sostituire al disordine provocato dall'aggregazione degli interessi individuali un'autorità legittima in grado di incentivare gli utilizzatori a comportamenti sostenibili per mezzo di regole formali e di sanzioni per i loro trasgressori.
Se per anni questa è stata considerata l'unica strada per una buona gestione delle risorse naturali, alcune questioni non risolte e nuove scoperte hanno oggi scalfito tale certezza.
In primo luogo, chi garantisce che l'amministrazione pubblica sia interessata all'obiettivo della sostenibilità nello sfruttamento delle risorse di sua competenza?
In molti casi, obiettivi diversi e in conflitto con il primo, come quelli legati allo sviluppo economico, possono prendere (e nella pratica prendono) il sopravvento, portando a politiche poco rispettose dell'ambiente e della sua salute.
In secondo luogo, anche amministrazioni interessate a perseguire obiettivi di sostenibilità non è detto che siano, nei fatti, capaci di realizzarli.
Il problema di monitorare efficacemente i comportamenti contrari alle regole stabilite e di sanzionare i trasgressori è tutt'altro che banale poiché tali azioni sono spesso difficili e/o costose e non sempre i mezzi (e la volontà) a disposizione sono tali da permettere un'implementazione adeguata delle leggi approvate.
Un esempio lampante di tale stato di cose è la difficoltà che le amministrazioni locali hanno nel far rispettare i limiti esistenti di inquinamento dell'aria nella maggior parte delle aree urbane.
Infine, vi sono oggi risorse comuni su una scala tale per cui non esiste alcuna autorità in grado di stabilire regole di gestione né tantomeno di controllare l'operato dei loro utilizzatori: in particolare, le cosiddette “nuove risorse globali” - gli oceani, l'atmosfera, la biodiversità, il funzionamento del sistema-Terra nel suo insieme - “utilizzatori” delle quali possono essere considerati tutti gli esseri viventi del pianeta.
Il modello di gestione endogena
delle risorse comuni
Gli sviluppi della ricerca negli ultimi quindici anni hanno però mostrato che gli esseri umani, a condizione di poter definire un gruppo delimitato (ma non per questo necessariamente ristretto) di utilizzatori, sono tutt'altro che attori passivi e condannati a soccombere alla “tragedia” di Hardin.
Al contrario, studi come quelli effettuati da Elinor Ostrom hanno messo in luce l'abilità umana nel creare istituzioni endogene, vale a dire sistemi di regole e strumenti per farle rispettare frutto della capacità organizzativa degli utilizzatori stessi, capaci di favorire una gestione ambientalmente ed economicamente sostenibile delle risorse naturali.
Il vantaggio principale che le istituzioni endogene hanno nei confronti di interventi delle autorità esterne è la loro capacità di adattarsi alle peculiari condizioni del contesto entro cui operano, grazie all'impiego delle informazioni “di prima mano” sul funzionamento del sistema socio-ecologico locale possedute dagli individui che direttamente agiscono in tale sistema e alla loro capacità di adattarsi rapidamente ai feeback ricevuti dall'ambiente.
Il fatto che le istituzioni siano endogene non garantisce di per sé il successo, ovvero la sostenibilità ecologica e socio-economica, delle pratiche di gestione della risorsa.
Al contrario, tanto la storia quanto il presente sono costellati da esempi di distruzione di risorse ad opera delle comunità interessate al loro sfruttamento.
Non mancano però nemmeno gli esempi di successo, soprattutto quando le singole comunità hanno potuto compiere un percorso di adattamento graduale, attraverso processi di prova-ed-errore, ai sistemi ecologici che forniscono le basi per la loro sopravvivenza.
La ricerca ha dimostrato come, almeno al presente, i fattori che spingono molte comunità in direzione di comportamenti insostenibili siano spesso di origine esterna.
In primo luogo, il funzionamento dei mercati internazionali dei prodotti alimentari e delle materie prime, che incentivano ad abbandonare le pratiche tradizionali di rapporto con l'ambiente a favore di strumenti più “moderni” ed “efficienti” e tendono perciò a intensificare lo sfruttamento delle risorse e, contemporaneamente, a ridurre la varietà delle soluzioni organizzative disponibili e a diminuire le possibilità di cogliere i segnali di allarme provenienti dall'ambiente.
Anche l'opera degli Stati e delle organizzazioni internazionali agisce in molti casi nella medesima direzione, con il risultato di imporre strumenti e istituzioni standardizzate per la gestione delle risorse senza tener conto della variabilità delle condizioni ecologiche, sociali ed economiche dei contesti locali.
Tale situazione è frequente e, purtroppo, ha rilevanti conseguenze negative tanto nel contesto dei paesi meno sviluppati quanto in quello delle nazioni più ricche.
La terza via:
il modello adattativo
Le prassi organizzative e gestionali delle comunità tradizionali non possono, come logico, essere banalmente copiate e applicate nei contesti contemporanei più sviluppati, in primo luogo a causa delle differenze sociali, culturali ed economiche esistenti.
La “lezione” che si può invece mutuare da esse è la necessità di abbandonare pratiche rigide di gestione ambientale, centrate su soluzioni universali tese a ridurre incertezza e variabilità delle condizioni locali e a garantire una stabilità artificiale a sistemi che sono, per loro natura, complessi e il cui comportamento è difficile, se non impossibile, da comprendere e da controllare a tavolino.
Più opportuno è permettere alle istituzioni di gestione di apprendere e di modificarsi nel tempo in funzione delle informazioni e dei feedback che giungono dai sistemi socio-ecologici a cui sono legate.
Tale modello, detto di management adattivo, considera le regole e le politiche di volta in volta utilizzate come “esperimenti” e non come soluzioni definitive al problema del rapporto con l'ambiente.
Se l'esperimento ha successo, le pratiche correnti possono essere mantenute, almeno fintanto che i primi segnali negativi non suggeriscano l'opportunità di modificare le strutture istituzionali esistenti in un ciclo senza fine di co-evoluzione tra uomo e ambiente.
Il punto centrale è la dipendenza dell'uomo dall'ambiente in cui vive: un’idea presente tanto nella cultura dei gruppi che sussistono prevalentemente grazie all'uso dei prodotti naturali spontanei - come le comunità dedite alla pesca o alla caccia e raccolta - quanto in quella delle società agricole, ma che è invece debole o assente nelle menti degli uomini urbanizzati, con la conseguente cieca fiducia che essi di norma pongono in soluzioni economiche e tecnologiche per i problemi ecologici.
Che tale fiducia sia immeritata è tanto più vero quando a essere alterato dall'azione umana non è solo più l'ambiente locale, ma il sistema-Terra nel suo insieme.
Le strategie usuali di risposta alle crisi ambientali provocate dallo sfruttamento eccessivo di risorse locali, l'importazione di nuove risorse da altre aree e/o la diminuzione della pressione ambientale per mezzo di processi di emigrazione, non sono più possibili quando a essere in pericolo è il contesto globale: un sistema, la Terra, chiuso dal punto di vista termodinamico e che di conseguenza non permette scambi significativi di materia (animata o inanimata) con l'esterno.
Una co-evoluzione sostenibile con il sistema-Terra nel suo complesso diventa quindi imprescindibile per la stessa sopravvivenza della specie umana: una delle innumerevoli componenti del sistema, importante, ma non per questo garantita nella sua permanenza futura.
Paradossalmente, proprio nella gestione delle nuove risorse globali - gli oceani, l'atmosfera, la biodiversità, il sistema-Terra nel suo insieme - le lezioni apprese dalle comunità tradizionali si rivelano particolarmente utili.
Al pari dei cacciatori, dei pescatori e degli agricoltori del passato, la scienza contemporanea non ha che un quadro approssimativo (ad essere benevoli) del funzionamento del sistema nella sua globalità, sistema che presenta peraltro livelli di complessità difficilmente immaginabili prima delle scoperte degli ultimi decenni.
Ciò non significa che sia opportuno rinunciare alla conoscenza e alla comprensione permesse dall'approccio scientifico, significa invece che non esiste la possibilità di pianificare e di costruire a tavolino strumenti di management sicuramente efficaci e, quindi, istituzioni ottimali per la gestione delle risorse globali.
La conoscenza scientifica deve perciò essere integrata in istituzioni flessibili, che abbiano la capacità di adattarsi e, soprattutto, di imparare dai feedback ricevuti dall'ambiente in un processo evolutivo continuo basato su molti piccoli passi: altrettanti esperimenti che, in caso di insuccesso, portino solo a errori modesti.
Occorre altresì che cresca la consapevolezza dei limiti e, in un certo senso, della delicatezza dell'ambiente globale, poiché non esistono più condizioni tali per cui sia possibile compiere errori importanti senza pagare un prezzo elevatissimo: il rischio presente è che i processi antropici di disturbo del funzionamento del sistema-Terra diventino tali da modificare il suo stato attuale (per lo meno su scala temporale umana) di equilibrio, con conseguenze profondamente negative, se non distruttive, per gli esseri umani.
Non potendo emigrare altrove l'uomo è oggi costretto dalla sua stessa storia a gestire processi a livello globale di cui sa, in fondo, ben poco.
È difficile dire con precisione quali siano gli strumenti adeguati a un tale compito, ma è certo che essi non vanno ricercati nelle soluzioni rigide e nei modelli organizzativi uniformi adottati fino a oggi e mutuati dalla cultura manageriale industriale.
Varietà, flessibilità e, soprattutto, capacità di apprendimento appaiono, al contrario, più appropriate per costruire soluzioni istituzionali capaci di guidare un contesto globale di smisurata complessità.
Nonostante la rivoluzione industriale ci abbia illuso, per un momento, di vivere in un'era di sicurezza e di prevedibilità, è ancora una volta sulla base della creatività della capacità di adattamento e dell'attitudine a elaborare strumenti nuovi e adeguati al loro compito che l'uomo deciderà il suo futuro.