“Fratelli… diversi” e storie di integrazione. L’altra faccia dell’immigrazione

17 novembre 2011, 19:20 Il Fatto

Pregiudizi e stereotipi: sono due nemici difficili da affrontare se si vive in Italia, ed ancor di più in realtà marginali come quella calabrese. Diventa un’impresa ancor più ardua se chi li deve combattere ha la pelle scura. I pregiudizi sono le scorciatoie che ognuno tende a intraprendere nel ritrovarsi con persone del suo stesso gruppo, condividendone abitudini, interessi, lingua e cultura e che rendono gli altri estranei e gli sconosciuti una vaga minaccia. Lo stereotipo può essere di due tipi: negativo e positivo. Il primo vede il migrante come un ignorante, poco propenso al lavoro, che vive di espedienti, che non prova neanche a inserirsi e adottare le regole della società che lo ospita. I lavoratori stranieri che operano regolarmente e vivono onestamente non interessano agli altri; fanno più audience, e fors’anche più comodo, i pochi che delinquono, così da poter poi affermare che il migrante è uguale ai malviventi.

Basta, però, approfondire le conoscenze, andare un po’ oltre la superficie, per trovare un’umanità dolente, venuta in terra calabra per trovare una prospettiva di vita che nel suo Paese gli era negata. Così, i migranti assumono le fattezze di persone, come quelle che il centro dell’Agorà Kroton attualmente ospita; la struttura ne può contenere fino a 25, ma solitamente, per scelta, non si superano mai le 15 unità. E’ stata aperta circa tre anni fa ed al suo interno, tra i turni di giorno e quelli di notte, operano 10 figure, altamente professionali, come avvocato, psicologo, assistente sociale. A dirigerla, Pino De Lucia. A cinque dei nove ospiti la cooperativa ha trovato anche lavoro, nei campi, attraverso appositi progetti. Finora, con i programmi Lear, sono stati in 60 ad aver potuto lavorare, anche se per pochi mesi. Altri ospiti, come Mohammed, vanno a scuola. Adoma, Issa, Duda lavorano a Barconeto, l’azienda di Antonio Caratozzolo; Tigna, invece, lavora nell’Agrigen di Salvatore Pettinato.

La loro giornata è scandita da orari fissi. Sveglia alle 4 e dopo la colazione, alle 4,30 subito in marcia, direzione autostazione dei pullman Romano. Naturalmente a piedi, o, qualcuno, anche in bicicletta; partono di buon’ora perché dalla struttura d’accoglienza fino all’autostazione è un bel tragitto. La partenza del pullman è alle 6,15 per raggiungere la destinazione, nei campi, poco dopo le 7 del mattino. La fine del turno di lavoro è poco dopo le 14, mentre l’appuntamento con il pullman del ritorno è fissato alle 16. Una vita non facile, che stride con lo stereotipo dell’immigrato che non vuole lavorare e che spesso, poi, viene ulteriormente resa difficile da piccole complicanze dettate da un razzismo strisciante.

Le aziende che hanno accolto gli immigrati sono inserite in un circuito di solidarietà ben poco noto. Caratozzolo, titolare di Barconeto, infatti, offre alla comunità Agorà, ma anche alle parrocchie e ad altri enti benefici, quei prodotti fuori caratura, quelli, cioè, che pur essendo buoni non hanno caratteristiche richieste di grandezza. Questo accade per le arance, ma anche per le patate ed altri prodotti ortalizi. Agrigen, che ha una produzione assai diversificata, che va dai fiori, alla vivaistica, agli ortalizi all’agroalimentare, spesso da l’opportunità ai ragazzi che, di volta in volta ospita nell’azienda, di restare dopo un percorso formativo. In entrambi i casi, si tratta di esempi concreti di fare rete, all’insegna della solidarietà. Al ritorno in comunità i ragazzi ospiti sono impegnati nei corsi per imparare l’italiano, organizzati dallo stesso centro, ma non mancano anche attività ludiche, con la visione del calcio su tutto, una delle passioni universali a qualsiasi latitudine.

La loro partita, quella vera, loro la giocano tutti i giorni, nei campi, in attesa di un goal che si chiama libertà.