Cristo si è fermato a Sovereto, a Isola Capo Rizzuto, questo lembo di Calabria difficile da descrivere e ancor più da vivere. Era passato da queste parti perché, tra quattro mura e poco più, un tempo qui sono stati ospitati dei preti in difficoltà. Poi, la chiesa, ha ceduto la baracca a un gruppo di visionari, quelli che hanno formato la cooperativa Agorà Kroton, provenienti da un quartiere popolare che porta il suo nome, Fondo Gesù, e Cristo qui c’è rimasto. Non è, però, il Cristo dei santini che porta con se il profumo d’incenso e grani di rosari da far scorrere tra le dita; è quello, invece, che si sporca le mani per aiutare chi ha il volo segnato da pensieri troppi pesanti, come la croce, da portare da soli. E’ un Cristo che rivive ogni giorno, che pare di intravedere nella barba incolta di Francesco, nei capelli lunghi di Antonio, nelle occhi di Gaetano. Uomini, questi, crocifissi dai ricordi di ciò che hanno perduto e che li ha portati in comunità, quella dell’Agorà, a cercare di raccogliere i frammenti di vita e ricucirli di nuovo insieme. Persone che vivono la battaglia quotidiana per cercare di non interiorizzare le loro colpe ed i fallimenti, con la paura di una ricaduta che insegna a censurare azioni e pensieri, anche quando la vita sembra non mostrarti alcun appiglio a cui aggrapparsi.
Cristo si è fermato a Sovereto anche come extracomunitario, perché qui condividono un rettangolo di terra gli ultimi, etichettati come reietti, perché hanno troppi buchi sulla pelle o, invece, hanno la colpa di avere la pelle un po’ più scura Ognuno, in questo fazzoletto di terra, ha una propria visione dell’inferno, un’iconografia con cui lo identifica: una siringa o un barcone in balìa del mare; chi è qui, all’inferno c’è già stato ed ha solo voglia di non tornarci più. A vedere questi 15 “ragazzi” (così li chiamano e vengono chiamati, anche se qualcuno di loro è in la con gli anni) non daresti un soldo. Ma a parlarci, a stare un po’ con loro, si scopre un altro mondo. Un mondo che emerge dal racconto delle loro storie, dove, forse più per pudore che per mancanza di speranza, non si nominano mai parole come felicità e futuro. E negli occhi degli ospiti del centro Agorà Kroton si scorge quel vago accenno di malinconia, per qualcosa che si è perso forse irrimediabilmente, di occasioni che non torneranno, per aver scelto, quel maledetto giorno, un surrogato chimico per fuggire dalla realtà.
A Sovereto tutto ciò che si vede è frutto del lavoro dei ragazzi; ogni pietra, ogni mobile è opera dei “ragazzi”, che sono passati dall’erba da fumare a quella da tagliare nel cortile, dalla polvere da sniffare a quella da togliere dai pavimenti e dagli arredi. E dietro ogni timido sorriso c’è il timore di ripiombare nell’inferno, perché i fantasmi del passato sono sempre in agguato, nel girone dove le sofferenze consumano corpo, anima e speranze. E giorno dopo giorno i ragazzi si vedono restituito il presente, che appare sotto forma di piccoli gesti quotidiani, e riprendono a intravedere quella che per gli altri è la realtà, piano piano, senza più scorciatoie. E qui, tra quattro mura o all’aperto, riscoprono di avere anche una forza creativa, che si esprime passando le dita sulle corde di una chitarra, dipingendo tegole o creando mobili; un qualcosa che inizia e poi si finisce, cosa che spesso non accade quando devi tenere a bada la scimmia.
Cristo si è fermato a Sovereto, e non solo scolpito sulla grande croce della cappella, dove sono passati molto ragazzi prima del loro ultimo viaggio. Come Maurizio che, consapevole della morte, l’ultimo giorno ha rassicurato il presidente della cooperativa, Pino De Lucia: “Non ti preoccupare. Io sto morendo e vado a parlare con Dio e chiedo di aiutare voi poveri disgraziati, che ne avete bisogno”. Tante le storie di ragazzi passati dalla comunità di recupero di Agorà, ognuno diverso dall’altro ma tutti accomunati da un’etichetta che è stata data loro e che è difficile da togliere; “ragazzi” approdati in questo lembo di terra alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarli, a cui poter rivelare le angosce, i dilemmi e quel groviglio che ti prende dentro e che non sai spiegare ma che ti fa sentire ancora vivo.
Giacinto Carvelli