di Vito Barresi
Il mare che sta dietro a chi s’imbarca sui gommoni in rada tra le spiagge della Sirte sbatte per sempre le onde dell’Africa in faccia a tante vite. Il grande Atlante mediterraneo, disteso lungo lo splendore assopito della civiltà faraonica e l’antica potenza di Cartagine, non sempre s’aprirà benevolo sulla porta dell’Europa, a quanti si salveranno da un prevedibile naufragio, dopo la biblica traversata delle acque. Alla moltitudine afro asiatica che abbandona in questo secolo i propri villaggi, sfuggendo alle guerre e le città distrutte, dal terrore e dalla paura dei dispotismi feroci, nel cammino verso un nuovo mondo di libertà, può accadere che la speranza e il sogno d’intere famiglie, ricominciare tra l’America e l’Europa, sia distrutto da un’improvvisa burrasca, un naufragio senza spettatori in cui scoccano le ore tragiche dell’ultima notte di un ultimo viaggio, momenti in cui nessuno potrà più parlare a nessuno (… se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondi che non fu Oudeis ‘Nessuno’, ma Ulisse d'Itaca! ...), se non con l’eco stesso della propria preghiera disperata, la voce dell’anima che rimbomba tra le lacrime e pianti di donne e bambini come in una campana strapiomba di pioggia.
La rotta è stata breve ma adesso che si rischia di passare precipitosamente dal corridoio umanitario alla rottamazione per mano militare dei barconi in rada nel golfo della Sirte, le cose rischiano di complicarsi. Ed è questa forse l’unica inquietudine che prende al cuore i marinai della flotta della solidarietà che solca i vari mari di costa e d’altura del Mediterraneo, l’impressione più forte e connotata che si desume dal volto e dai gesti dei medici e dei volontari imbarcati in quel micro contesto etnografico in acque internazionali che batte bandiera del Luxembourg, la nave Bourbon Argos, offshore tug/supply ship. Pronta a salpare quando si fa sera dal porto di Crotone, poco meno di ventiquattro ore dopo dalla felice conclusione dell’ultima missione di salvataggio effettuata a poche miglia dai confini nazionali italiani, l’imbarcazione torna a dirigersi lungo la sua linea di manovra operativa, sul fronte afro mediterraneo dove è in pieno svolgimento la sordida e silenziosa Grande Guerra dei profughi globali.
Anche se la Bourbon Argos è tarata per contenere dalle 300 alle 350 persone soccorse, la sua capacità rapida di manovra per rispondere alle richieste d’emergenza, sì è dimostrata superiore portando in salvo un contingente di oltre 700 immigrati. Nel perimetro dei suoi 68 metri sono stivati diversi container, fissati sul ponte, equipaggiando la barca di un pronto soccorso, un’area d’osservazione, un ambulatorio, uno spogliatoio, un’infermeria, un magazzino e un obitorio. Anche se ci vorrebbe la destrezza sudamericana di Gabriel Garcia Marquez per ridestare in tutti noi il sentimento di fratellanza universale di fronte alla catastrofe umanitaria che si consuma nel chiuso del Mediterraneo, posso però affermare che colpiscono solennemente le parole resoconto che ascolto da Henry Gray, il field coordinator di Medici senza Frontiere che guida la compagnia di volontari impegnati ad arginare almeno in piccola parte gli effetti di questa catastrofe umanitaria.
Lui mi risponde, e un suo collaboratore traduce dall’inglese, che la situazione è davvero drammatica, certamente oltre le stesse immagini trasmesse dai media mondiali. Tutti gli operatori imbarcati sui singoli navigli della più articolata e complessa flotta della solidarietà, attualmente in navigazione sulle diagonali del sud est europeo, sono costretti ad agire in una situazione di costante allerta, di continua emergenza. Aggrappati a un filo invisibile, sospesi sul buco nero di un’immensa fossa marina, una voragine di morte aperta su un mare bellissimo, abbagliante, pronto a tramutarsi in un baratro senza ritorno. Lucidamente consapevoli di quel che potrebbe succedergli, per non svanire definitivamente dal ricordo dei loro cari in un giorno destinato a perdersi per sempre, Henry Gray mi dice che tutti ormai hanno una sola ancora a disposizione per dar senso alla propria esistenza, quel cartellino che si attaccano sulla maglietta o sul salvagente con scritto il nome della madre e il suo numero di telefono. Perché se moriranno, se non faranno più ritorno, se ritroveranno i loro derelitti cadaveri galleggianti, qualcuno sappia a chi rivolgersi per dargli almeno giusta sepoltura.
Il tempo della generica solidarietà volge al termine. L’Europa è vittima non solo dei suoi ritardi ma anche delle sue stesse contraddizioni. Già mesi addietro la Commissione europea aveva proposto il rafforzamento della cooperazione, la promozione concreta del principio d’equità in materia d’asilo e accoglienza, prospettando la realizzazione di presidi internazionali, attivando le rappresentanze diplomatiche europee nei paesi della catena migratoria, al fine di concedere a chi ne abbia diritto di raggiungere il continente in condizioni di sicurezza e di legalità.
Queste proposte sono state accantonate. Dopo un semestre italiano abbastanza inutile, più concentrato sulla nomina della Mogherini che non sull’emergenza profughi, quel che pensa Renzi sembra chiaro. Mentre sta parlano in cima alle frescure alpine del Monte Bianco, inaugurando lo skyway, s’informa su come vanno le cose nei bassifondi del Mediterraneo. Magari per cronometrare il timing del suo colossale progetto di rottamazione dei barconi clandestini. Un modo per rispondere con i toni più forti dello statista al becerume devastante dell’altro Matteo che vede le cose dalle stazioni ferroviarie del Nord e non dall’imboccatura dei porti meridionali, dove i sommersi e i salvati, escono dalla ‘rescue zone’ per entrare nel tunnel della zona grigia della non identità, bloccati e respinti in assenza di ogni diritto, in balia della sorte e della clandestinità. Quel che gli resta, profezia di Primo Levi vissuto nei ‘campi d’accoglienza’, è solo la memoria di un sorriso pronunciato in un attimo d’istantanea felicità. Tirando in silenzio, con i bimbi in braccio, un umano sospiro di sollievo.
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