C’è un classico della letteratura ecclesiastica di ogni tempo, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa di Antonio Rosmini, trattato dedicato al clero cattolico, che don Edoardo Scordio conosce bene e a memoria nella sua minuziosa partizione (la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto, l’insufficiente educazione del clero, la disunione dei vescovi, la nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale, la servitù dei beni ecclesiastici), meglio di ogni altro, a cui forse lui non avrebbe mai voluto aggiungere la sua personale sesta ferita purulenta, infertagli dalla magistratura e da quanti altri lo accusano in proposito, anche nella sua stessa diocesi, e cioè l’infamante imputazione di essere un ‘parrino’, o al più un affiliato alla ‘ndrangheta, e non invece un servo della sola sequela del Redentore.
di Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social
Un’accusa pesante che Don Scordio sta rigettando con forza e determinazione, scontando i distinguo e le prese di distanza che nelle ore immediatamente seguite al suo arresto si sono a dismisura infittite, compresa quella dell’arcivescovo di Crotone Domenico Graziani che ha rilasciato un raggelante commento in proposito, “l’ho sospeso dal servizio in parrocchia. Questo è l’atto più significativo che io possa concepire in questo momento.”
Di cosa abbia più paura in questi giorni Don Eduardo, se restare in carcere o finire dritto all’inferno, non è difficile stabilire anche per via della doppia contingenza che lo riguarda.
Sacerdote chiamato a osservare non uno ma più comandamenti, a divulgare in opere e parole l’educazione alla cristianità e alla legalità, lui che è parte integrante e di spicco non di una barbara banda di affiliati alla malavita ma di una nobile e ammirata congregazione di padri rosminiani, si contano meno di 15 Comunità Rosminiane in Italia, tra cui spicca per dotazione e sviluppo delle iniziative di carità proprio quella di Isola Capo Rizzuto in Calabria, decollata sotto l’egida del famoso vescovo anti camorra di Acerra Mons. Antonio Riboldi.
Dalla fine degli ormai lontani anni novanta del Novecento, quando a favore di Don Scordio si spendevano uomini del calibro del presidente della Camera Luciano Violante e poi in un crescendo rossiniano il Procuratore Nazionale Antimafia Vigna, il presidente emerito Francesco Cossiga, vari ministri persino leghisti, sottosegretari di Stato in carica, uomini dei servizi e del Copasir, prefetti, attuali capi della Polizia di Stato, generali dei Carabinieri e quant’altro, molte cose sono purtroppo cambiate per questo uomo di chiesa, sotto le cui ali sono cresciuti tanti giovani sacerdoti tra cui spiccano anche due Vescovi, come Don Tonino Staglianò, presule di Noto in Sicilia e Don Pino Caiazzo, pastore di Matera.
Che non si tratti di un parroco qualunque, quanto invece di una personalità di spicco che ha inciso fortemente nella storia cattolica calabrese di questi ultimi trent’anni è a tutti evidente, anche se molti fanno finta di non farci caso. Don Edoardo è stato esempio della costruzione di opere per la carità, espressione concreta e testimonianza attiva della pastorale politica e sociale nel comune isolitano e nella provincia crotonese.
Di lui si può dire che è stato sacerdote in qualche modo costretto nell’infernale polarità di una realtà contaminata da un lato dalla ‘ndrangheta e dall’altro aggredita da un fenomeno gigantesco e planetario, quale è quello dell’immigrazione clandestina ed extra europea confluita e tracimata nelle stretta portata di un paesino agricolo e turistico, l’Isula di Capo Rizzuto, capitale della lotte contadine e bracciantili, alla guida del suo indimenticabile sindaco Senatore Pasquale Poerio.
L’inchiesta del pool dei giudici antimafia ci fornisce, in reversione evidente, il ritratto di un prete rosminiano che vive in Calabria nel pieno di un periodo di disordine pubblico, che predica tra raccapriccianti violenze e sevizie delinquenziali, tra incontenibili e tumultuose migrazioni globali e mediterranee, che hanno sconvolto l’identità comunitaria e paesana del piccolo centro crotonese.
In oltre duemila pagine di narrazione, costantemente puntellate da richiami precisi ai più vari e pesanti articoli del codice penale, ciò che sovranamente risalta è una valutazione complessiva e un giudizio di valore molto netto sul quadro ambientale, il contesto storico e sociologico in cui questi misfatti avvengono e si avviluppano su stessi.
Tuttavia giova anche appuntare che in tutto l’impianto, guarda caso nella trama stessa della fabula, l’inchiesta offre scarsi agganci e spunti con la politica, il voto di scambio, la strumentalizzazione familistica della parentela (straordinario sarebbe stato attingere per dare collante ed energia al quadro probatorio, allo sconosciuto e negletto saggio di Giovanni Arrighi e Fortunata Piselli, proprio su Isola Capo Rizzuto) se non in maniera vaga, quasi in assenza, per via invisibile.
Come se con accorto dosaggio si volesse sollecitare un distinguo tra la Misericordia e la politica, tra il Cara e il Governo in carica, le Prefetture, il Ministero degli Interni, le Stazioni Appaltanti, la Questura, la Protezione Civile, gli organi di vigilanza e di controllo a livello nazionale ed europeo, e infine il sempre incombente e più eclatante intreccio collusivo tra ‘ndrangheta e politica in Calabria.
Un vuoto che lascia pensare. Un salviamo il salvabile, una sorta di sospensione di giudizio, un’epochè inquietante sul cui sfondo si intravedono sfilare come in un carillon della mala politica i tanti santini e le variegate fotografie del responsabile della locale Misericordia Leonardo Sacco, sempre in posa con l’intero 'gotha' della politica romana e i più importanti personaggi dello Stato.
Ora i magistrati di Catanzaro capovolgono l’immagine, più o meno fornita fin qui dai media di ogni genere e dai vari potenti dello Stato, della Politica, delle Istituzioni e della Magistratura (compresa la stessa ampia pubblicistica del ‘giudice-sociologo’ Gratteri che scrisse su Don Scordio quasi un florilegio elegiaco secondo cui “Don Scordio noto per le sue coraggiose omelie ai funerali di alcuni mafiosi della zona, è un prete che riesce ad attrarre intorno a sé moltissimi giovani, con i quali fonda importanti movimenti di volontariato. Sono don Scordio e i suoi giovani ad ispirare il film “Il coraggio di parlare” di Leandro Castellani, tratto dall’omonimo romanzo di Gina Basso") dipingendolo a fosche tinte, prono ai banchetti, alle feste e altre circostanze solenni, nell’atto liturgico di porgere il bacile alle demoniache famiglie del male.
Un ritocco criminalizzante che antagonizza tutto il passato di questo sacerdote. Che pure non sembra far precipitare una più accurata e profonda riflessione critica sui rapporti tra terzo settore, volontariato, solidarietà e grandi questioni della politica e del sociale, come immigrazione, sicurezza pubblica, arretratezza meridionale, nuova criminalità organizzata, Chiesa e Stato, ecc.
Una storia che non può essere ridotta nell’esorcizzazione di un solo sacerdote. D’altra parte ancora innocente. Almeno finché non sarà pienamente provata la sua presunta colpevolezza.