Chiesa e Politica in Calabria dopo la pandemia. Riconquistare l’egemonia per rimettere i cattolici al “centro” dello sviluppo regionale

15 aprile 2021, 12:15 100inWeb | di Vito Barresi

L’impressione che se ne ricava, almeno a sguardo di drone che sorvola un campo di macerie archeologiche, è che tra la Chiesa calabrese e la politica regionale, nel senso di quella post-partitica in cui si è ridotta, finita l’epoca del grande potere democristiano, non ci sia più nessun ‘feeling’. Allora si dirà: ma, se non ci sono fermenti, perchè mai la necessità di ripensare alla rappresentanza politica, impegnarsi con sentimentI nuovI e sperimentalità, formare un laicato maschile e femminile che sia ceto dirigente, una classe politica centrata nei saldi principi del Catechismo cattolico, secondo percorsi che non si riducano a qualche cattedratica scuola di formazione, ripartire da un approccio vivo, reale, dalla fertile presenza nel sociale e nell’ecclesiastico, dove si assaggia il pane quotidiano dell’inchiesta e dell’ascolto, per rigenerare la presenza cattolica nelle istituzioni e nella politica della Calabria?


di Vito Barresi

Che il divorzio tra Chiesa e politica in Calabria non sia più neanche ‘questione’ socchiusa, per non dire lasciata almeno remotamente aperta, ma una di quelle tematiche dimenticate, magari da dibattere durante qualche causa canonica in sede d’appello, non da tutti però, viene dato per scontato.

Anzi, osservando da lontano la strana quiete che cova tra le 12 diocesi che compongono la regione ecclesiastica calabrese, sembra di percepire, per via del tutto invisibile, qualche strana e nuova tensione, tra le pievi desertificate come la peste dalla pandemia, e quel che resta della leggendaria politica democristiana, nell’epoca inedita della paura e del distanziamento.

Dall’ormai lontano 1992, anno in cui la Democrazia Cristiana, ancora, deteneva saldamente il primato storico e ineguagliabile di primo partito in tre circoscrizioni con il 38% dei voti (la maggioranza ‘assoluta’ era stata sfiorata nel ‘58 con il 48,2%), più nessuna chimica delle passioni politiche si è innescata tra le sagrestie e il partito, tra pulpito e palco, più niente ha scaldato voci, idee e cordate, in grado di risvegliare l’aggregazione di interessi più vasti e collettivi nel popolo cristiano.

Da allora in poi nessun collante, né sul medio nè sul lungo periodo, ha saputo rimediare alla perdita dell’egemonia clericale sulla politica calabrese o, se si vuole, alla sconfitta del potentissimo apparato laico di un partito che si autodefiniva, sia nel segno che nello stemma, cattolico, forte su programmi generali e ma soprattutto sui favori particolari.

Un’eredità imponente che si è prima diluita e poi dileguata nelle urne elettorali di paesi e città, lasciando soltanto un vago ricordo delle ultime crociate dei grandi collettori di voti, ministri, assessori regionali, plenipotenziari e proconsoli della Dc tra Piazza del Gesù e quelle Calabrie, divise e scontrose, sempre chiuse a roccia nei propri campanilismi.

Dopo di lui il diluvio, disse di sè a Catanzaro in un’affollatissima assise scudocrociata, un potentissimo aggregatore di preferenze, niente che sia andato oltre la grossolana elemosina dei voti, al di là della colletta elettorale, e spesso, anche, di qualche deplorevole episodio di scambi di favori affaristici e speculativi.

Quello che verrà dopo, nei termini di una ricostruzione della vita politica, sociale e istituzionale, è il prevalente e pesantissimo effetto di Covid-19 su una regione ampiamente sottosviluppata e in ritardo, con un sistema sanitario calabrese che è diventato il paradigma e l’emblema della malasanità in Italia.

La pandemia ha praticamente demolito la catena ospedaliera dislocata sul territorio, gettandola nell’emergenza e nella confusione, disabilitando integralmente i collegamenti che legano la sanità, la medicina, il pronto intervento, la vigilanza che dovrebbero essere l’apparato operativo, se non la filosofia stessa di un servizio essenziale al diritto alla vita.

Durante tutto il tempo della pandemia in pochi, tra i vescovi calabresi hanno messo in evidenza che la Calabria si salva, solo se e come, avrà una prospettiva di ripresa, se la sanità sarà messa seriamente al centro di un programma complessivo di rigenerazione e salvaguardia comune, se i politici, i consiglieri e gli assessori regionali di più limpido e manifesto orientamento cattolico, sceglieranno non gli interessi di parte, cioè d’imprese o di consorterie che investono esclusivamente per lucro e tornaconto nel settore della salute calabrese, quanto programmi e personalità che esprimono i bisogni condivisi del bene collettivo, che s’impegnano su obiettivi che non possono essere quelli dell’oggi, nè del passato, ma di una discontinuità futura che è già iniziata.

Per monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, l’arcivescovo metropolita di Reggio Calabria-Bova, un pastore 'uscente' che ha vissuto gli ultimi mesi del suo impegno ecclesiale proprio nell’infuriare della tempesta pandemica, bisogna ripartire insieme dalla gravissima condizione sanitaria in cui si trova la Calabria, ormai da anni al collasso.

Evidentemente, sembra suggerire, bisogna chiamare i cattolici, i laici presenti nelle varie diocesi, a impegnarsi in una politica di rinnovamento e concretezza che sappia comprendere e denunciare il nefasto intreccio che si è evidenziato con più forza durante la pandemia, tra zona rossa, decretata non in virtù dell’incidenza del virus ma per il valore alto dell’Rt, l’indice di contagio dell’epidemia, e la proroga fino al 2023 il commissariamento regionale della sanità.

Il virus ha scatenato contrasti e conflitti sociali che appaiono a tratti, sporadicamente, tra fatti e avvenimenti della cronaca, così disgreganti e impressionanti che molti sospirano, pensando non tanto ai tempi del Duce ma a quelli di Misasi e Mancini, i grandi capi del centrosinistra sia italiano che calabrese.

E, dicono in silenzio, che si stava meglio quando si stava peggio, perché senze quell, cioè i leader verii che permisero la costruzione della filiera ospedaliera e sanitaria della Calabria, affrontando le grandi emergenze delle malattie sociali come la malaria, e poi le poderose campagne di vaccinazione di massa contro la Polio, la tubercolosi, ecc.ecc., sarà difficile ancora una volta modernizzare i vecchi nosocomi come l’Annunziata a Cosenza, il Pugliese-Ciaccio a Catanzaro, o costruirne di nuovi in ogni provincia.

Se ora la politica non c’è più anche la sanità è scomparsa, devastata com’è dalle lotte di potere che puntano a debellare le distorsioni e la corruzione con la nomina di ambigui quanto confusi commisari piazzati dal Governo per controllare l’enorme spreco di pubblico denaro.

Sebbene sia questo il tema principale per la popolazione, la crisi del sistema sta diventando il campo di battaglia per riformulare i rapporti di prevalenza tra pubblico e privato, con il rischio che le carenze infrastrutturali di base, saranno il terreno di conquiste di nuove imprese pronte a occupare il settore come un vero e proprio spazio di mercato.

La Calabria nel suo bagliore di bellezza naturale sembra un quadro post nucleare, dove tutte le cose sono intatte, quasi piccole deturpazioni ambientali, sacchi di spazzatura alla finestra, nel mentre l’umano resiste nella sua resilienza a conchiglia, schivando le truppe degli zombizzati, camminado a zig-zag tra fioche luci, fari spenti nella notte, persino candele che sventolano con piccoli bagliori.

Graziosi segni di devozione laica e popolare, graffiti di chiesa rupestre, che esortano alla ripresa nazionale del rapporto tra clero e società, scorgendosi mescolanze di progetto e nostalgia, l'idea nobile-popolare e il bagliore medievale di un partito neoguelfista italiano, dove non tanto si sogna la ricerca dell’araba fenice, l’unità a prescindere in un nuovo contenitore, ma ci si accontenterebbe anche dell’unità dei cattolici attorno a prossimi, singoli o in compagnia.

Candidati di bandiera che vorrebbero impegnarsi in politica, anche cimentandosi nelle più infernali tornate elettorali, al momento se ne trovano anche pochi.

(Seconda puntata. Segue)


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