Provincia Crotone. Il Presidente Zurlo sulle Foibe
La pagina più dolorosa della storia della II^ Guerra Mondiale è senza dubbio quella che riguarda le stragi di civili. In esse si rivelò tutto l’orrore di una guerra combattuta non solo contro gli eserciti nemici, ma contro l’intera popolazione. Certamente, anche i bombardamenti aerei contro le città, che negli anni 1940-1945 raggiunsero livelli di straordinaria intensità, possono essere considerati come stragi di civili, culminate nei massacri di Hiroshima e Nagasaki. Ma gli uomini, le donne ed i bambini che morirono in quei bombardamenti furono vittime di strumenti bellici guidati, sì, da uomini, ma che colpivano a caso, e da lontano. Ci furono invece altre stragi, compiute dalle SS e dalla Wehrmacht, nel corso delle quali gli uccisori ebbero davanti a sé le loro vittime, che avevano scelto essi stessi, spesso in base alla razza o a una ideologia. Le responsabilità individuali, perciò, furono molto gravi. E nessuna di quelle stragi avvenne per errore, come accadde invece, frequentemente, nel corso dei bombardamenti aerei. Le stragi non finirono con la guerra. Si era nutrito troppo odio perché esse potessero cessare di colpo. In tale contesto si viene ad inserire la tragedia delle “foibe”. Migliaia di italiani uccisi e gettati nelle grandi fenditure carsiche ed altre centinaia di migliaia di persone costrette ad abbandonare le loro case, le loro occupazioni, la loro terra segnata dal sacrificio del lavoro di anni, esprimono una tragedia di dimensioni immense che ha inciso indelebilmente sulla geografia umana delle terre giuliano-dalmate. Per decenni, il dramma complessivo, vissuto dalle genti della Venezia-Giulia, non è stato adeguatamente rappresentato e doverosamente inserito nella memoria della società e nella storia del Paese. Per lungo tempo, di questa vicenda si parlava solo a Trieste e nelle comunità dei profughi. Da poco, si è compreso che essa è un capitolo importante della nostra storia nazionale. Oggi, gli studiosi stanno ancora cercando di fare chiarezza sulle ragioni di questo silenzio, interrogandosi sul perché e sul come l’Italia democratica e repubblicana non si sia preoccupata per lungo tempo dei suoi “desaparecidos”. L’argomento non era, forse, “politicamente corretto”, meglio dunque ignorarli, i nomi non erano degni di una corona di fiori. Trascorsi più di 60 anni dalla fine della guerra e caduto il Muro di Berlino, gli assetti internazionali appaiono profondamente mutati e sono venuti meno tutti quei condizionamenti ideologici che hanno così a lungo pesato nei giudizi sul passato recente. Il 10 febbraio ricorre l’anniversario della firma del Trattato di pace di Parigi che nel 1947 ha fissato i confini tra Italia e Jugoslavia. Con legge dello Stato italiano, del 2004, questa data è stata scelta come “Giornata del Ricordo”, dedicata agli avvenimenti che si consumarono tra il fine del 1943 ed i primi mesi del 1947 lungo i confini orientali. Parlare di “foibe” e di “esodo”, analizzare il contesto nel quale i fatti sono maturati, capire anche le ragioni del silenzio, che ha circondato questa carneficina, può essere d’aiuto per rafforzare in tutti noi il senso d’identità e di appartenenza alla propria nazione. Ma che cosa sono le “foibe”, questi luoghi ormai tristemente noti per essere divenuti enormi cimiteri naturali: sono le tombe degli italiani vittime della prima «pulizia etnica» slava, torbido e selvaggio giustizialismo frutto del nazionalismo slavo misto al comunismo messo in atto dalle truppe del maresciallo Tito. Le loro gole paurosamente nere davanti a uomini, donne, giovani, vecchi, preti, povere comparse di un «olocausto» volto ad uccidere l’italianità. E’ importante ricordare che le atrocità perpetrate dai partigiani “titini” non si limitavano agli “infoibamenti”. Ci furono anche gli affogamenti, soprattutto a Zara, dove le vittime venivano gettate in mare con una pietra al collo. C’erano poi altri a cui veniva risparmiato questo supplizio, ma dovevano subire la deportazione e l’internamento nei campi della Slovenia e della Croazia, per morire di stenti e malattie. Oggi, nessuno storico nega che sia avvenuto questo “Olocausto”. Oggi, è l’Europa che può e deve liberarci da un passato del quale siamo stati troppo a lungo prigionieri. Purché ci resti sempre «di monito» la coscienza che la tragedia degli italiani di Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia fermentò dalla piaga dei nazionalismi, della gretta visione particolare e disprezzo dell’altro, della acritica transazione della propria identità etnica o storica. Oggi, seppur ancora non si può parlare di memoria condivisa, di sicuro si può affermare che gli steccati sono cominciati a cadere.