Accordo di programma per il recupero di Africo antica, studio sui palmenti millenari
I millenari palmenti di Africo antica rientrano nell’accordo di programma per il recupero dell’antica cittadina della ionica. Il primo studioso a interessarsi dei palmenti è stato Orlando Sculli di Brancaleone. Sculli ha infatti messo in contatto una ricercatrice dell’Università Statale di Milano con le associazioni del territorio, affinché venisse accompagnata nei sopralluoghi.
Barbara Biagini si è interessata del bosco di Rudina, dove ha identificato e censito circa 20 esemplari di vite silvestre, prendendo per ognuna dei tralci che poi sono stati messi a dimora nel campo di conservazione che la Statale possiede a Lodi.
La ricercatrice, in particolare, ha cercato gli antichi vitigni autoctoni, da cui si produceva il famoso vino Caicino, ritenuto dai Romani uno dei più pregiati dell’epoca. Vitigni che ancora si trovano nei boschi di quercia o di castagno, aggrappati agli alberi da quasi 2 mila anni. Qui si trovano una decina i palmenti. E con loro anche i vitigni secolari che sopravvivono ad altezze inconsuete per la coltivazione delle viti, tra questi quello presente nell’Aposcipo (lato Africo) sopra le Cascate Palmarello che supera i mille metri di altezza.
Ma tra le centinaia di palmenti scavati nella roccia individuati nella vallata della fiumara La Verde (che secondo lo storico Tucidide corrisponderebbe al fiume Caicino), i meno conosciuti sono sicuramente quelli che si trovano nel territorio di Africo antica. L’inaccessibilità dei luoghi in cui sono ubicati, per mancanza di strade e di sentieri praticabili, hanno impedito agli studiosi di catalogarli.
Il palmento tipo era costituito da due vasche scavate nella roccia arenaria, una superiore (buttìscu) ed una inferirore (pinàci), che erano collegate da un foro. L’uva versata nel buttìscu veniva pigiata con i piedi e lasciata riposare per un giorno ed una notte; quindi, eliminato il tappo, si lasciava defluire il mosto nel pinàci.
Poi nella vasca superiore, attraverso delle scanalature ricavate nelle pareti laterali, veniva posizionata una grossa tavola piena di fori (foràta), per creare una strettoia (consu) in cui si versavano le vinacce per essere ulteriormente schiacciate da una specie di pressa costituita da un tavolone di legno di quercia forato (chjancùni) su cui poggiava un pesante tronco di legno (leva) che terminava a forcella, azionato da un tronchetto filettato (fusu), retto da una pesante pietra che fungeva da contrappeso (màzara). Infine il mosto veniva riposto nelle anfore vinarie.