La “Festa della Donna” ed il coraggio di chi ha detto “no” alla ‘ndrangheta
Quest’anno l’8 marzo ha nuovi simboli rispetto a quelli convenzionali, almeno in Calabria: le classiche mimose nel giorno della festa della donna, sono state scalzate dalle parole e dall’esempio di tre giovani coraggiose: Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola.
Per una volta, gli aspetti consumistici, ed a tratti irriguardosi per le stesse donne, hanno fatto spazio alle parole e alle testimonianze di queste tre giovani calabresi che hanno deciso di dire no alla ‘ndrangheta, testimoniando contro i loro stessi familiari. Le tre collaboratrici di giustizia, con le loro storie di straordinario coraggio, sono riuscite a creare un varco nella coscienza collettiva in una terra martoriata dal cancro della criminalità organizzata, che da sempre ne condiziona lo sviluppo.
Niente mimose, dunque, ma testimonianze verrebbe da dire, parafrasando un vecchio adagio, perché è proprio di questo che la Calabria ha bisogno per cambiare: di esempi positivi da seguire, di persone che sono disposte per un bene superiore a sacrificare la loro stessa vita ed il loro futuro. E con la ribalta mediatica (amplificata dall’iniziativa del Quotidiano della Calabria) data alle storie di queste tre giovani e coraggiose donne calabresi, la festa dell’8 marzo è riuscita a recuperare il suo senso più autentico, legato al sacrificio.
Il sacrificio di 129 donne, morte l’otto marzo 1908 a New York. Erano operaie della fabbrica tessile “Cotton” che avevano deciso di scioperare per protestare contro le pessime condizioni in cui erano costrette a lavorare in cambio di pochi dollari; i cancelli chiusi e il fuoco fecero il resto. Grazie a Lea, Giuseppina e Maria Concetta, le donne calabresi, e non solo, hanno ritrovato una ragione in più per ricordare con orgoglio questa festa che ribadisce che, in questo mondo sempre più maschilista, ci deve essere spazio anche per l’altra metà del cielo.