Recensione di don Filippo Ramondino, il nuovo libro di Domenico Sorace
A mio giudizio, di semplice lettore, Domenico Sorace ha una bella penna. E lo dimostra ancora una volta con il suo ultimo romanzo Il cielo è azzurro come i tuoi occhi neri.
Romanzo avvincente, a tratti, seducente, in una trama intima di pensieri che appartengono ad ognuno, di aspirazioni segrete e constatazioni disincantanti. Un romanzo classico e moderno, di sapienza meridionale e di respiro nordico. Racconta di una amicizia tra due ragazzi, divenuti adulti, di incontri umani, di paesaggi suggestivi, di un tumultuare di sentimenti, e, sullo sfondo, un movimento di spazio e di tempo, che richiama il senso dei luoghi e il senso della storia. Un romanzo moralmente pulito e pudico, perché dice cose vere e non falsità, esprime sentimento e non concupiscenza. Pagine che riflettono un “catechismo” umanistico, di seria humanitas, appreso tra il focolare domestico e le aule scolastiche, che ha plasmato la coscienza a virtù umane, anche se non pienamente segnate da una esperienza di fede soprannaturale.
Un tema, dunque, sempre attuale: l’amicizia. Che, soprattutto quando è quella nata nell’età più bella, lascia ferite sempre aperte dentro il cuore nel momento in cui il demone inimicante devasta sintonie dell’anima. Un desiderio di comunione persiste. Avverti una assenza nell’essenza della tua vita.
L’inizio del romanzo è in una chiesa, dove il protagonista, celibe, agente di commercio, si trova, solo occasionalmente, per assistere alla prima comunione della nipotina. Un gesto rituale, il segno della pace, fa scattare dentro di lui un bisogno struggente di riconciliazione, con un’ombra che, ormai da trentanni, si agita dentro la sua coscienza, l’amico Manfredi il quale “risale dall’abisso, come carne viva”. L’ite missa est, che conclude la liturgia, diventa veramente per il nostro una missio, un imperativo vibrante, un assoluto dentro la sua coscienza. Quando la messa è finita, si esce dalla chiesa per iniziare una vita nuova, che non è dimenticanza, oblio del passato, ma è, spesso, un saper tornare indietro, umilmente, per riabbracciare, per ricucire, quanto si era abbandonato, quanto si era, insipientemente, lasciato in sospeso. E ciò che accade al protagonista. Non avviene, ovviamente, per magia. Ma nella fatica di una metanoia, che si misura con le polarità della vita, con gli appelli della memoria, con l’autocomprensione. Ecco che parte subito, con la sua automobile, lungo il Bel Paese. Inizia la sua tensione verso l’altro e verso l’oltre. Viaggerà dentro una geografia dell’anima e dentro quelle anime della geografia che sono le parole e segni che ce la fanno leggere, identificare. Viaggerà dentro la memoria, raccontando di mete fascinose del suo passato; camminerà verso il futuro, cercando la mano che vorrebbe stringere con desiderio di pacificazione; ascolterà e vedrà negli occhi della rumena Alba, come una giovane dantesca Beatrice che provvidenzialmente si affianca nel suo peregrinare, altre storie, altre attese, altre inquietudini, altre risposte. Tra lui e Alba c’è un gioco dialettico, tra etica ed estetica, dove l’etica riguarda i rapporti sociali, l’estetica la bellezza fisica di Alba o dell’opera d’arte. Le dinamiche della struttura socio-politica hanno il sopravvento, come pure la bellezza vista come seduzione dello sguardo. Il dialogo tra i due vorrebbe essere essenzialmente interiore, metafisico, e lo sfiora … manca la spiritualità, manca la mistica, perché assente la fede, “le esperienze della Grazia”, direbbe Gabriel Marcel.
Tra meditazione e narrazione le parole ci coinvolgono. Ecco, per esempio, alcune sequenze nel corso dei capitoli, forti e originali, che esprimono quasi plasticamente questo itinerarium , tra disagio esistenziale, crisi dell’ Occidente, riscatto morale e ricerca di Dio. Si comincia dagli anni del boom economico, le famiglie godono di una maggiore agiatezza, ma questo clima si scontra, in brevi anni, violentemente, a livello sociale e politico, con una serie di problematiche antiborghesi. Il terrorismo è la negazione della libertà, l’ideoloatria distrugge le relazioni più vere, ti fa andare a senso unico e ti rende poi schiavo (cf p.81). Una dolorosa confessione del protagonista avviene davanti ad una donna sconosciuta (cf pp.88-89). A Pertosa, il suo scendere nelle viscere della terra diventa metafora di questo suo scavo interiore, l’esigenza di approfondire, andare al fondo delle cose (p.92). Così pure è da evidenziare la sosta a Marzabotto, dove avvenne la terribile strage di povera gente alla fine della seconda guerra mondiale (cf p.192). Il sangue che scrive la storia vera!
E chioso ancora, leggendo con piacere. Questo romanzo di Domenico Sorace è denso di umana sensibilità, di un sentire metafisico, che parte dal contatto diretto con la terra, con gli uomini. Non è una storia d’amore, è l’amore, la passione civica, che legge la storia, la storia della nostra Italia degli ultimi 60 anni. Vedendo la storia, vedendosi dentro la storia di cui si è parte integrante, ecco il disincanto, l’apparir del vero, la demitizzazione. Non senza un severo esame di coscienza, personale e collettivo, che mette duramente e amaramente a fuoco la smania del potere, il vizio della menzogna, il pervertimento dell’amore.
L’autore mi conduce con la sua automobile sui sentieri del tempo, aridi o fangosi, lastricati e asfaltati, viottoli o autostrade. Attraversiamo i tunnel bui del terrorismo in Italia, del comunismo in Romania, della Mafia e della Corruzione, Cosa nostra e Tangentopoli.. E mi invita a non essere solo “viaggiatore”, ma a farmi “viaggio”, a diventare io stesso speranza, a diventare meta, novità. La vita è fatta di incontri per diventare un incontro. “Solo l’amore apre la vita, le dà forma e sostanza”.
Questo “incontro” e questo “amore” nella penna di Sorace non hanno la maiuscola, ma rivelano una sorprendente esigenza teologica, anzi, di più, il bisogno di tenerezza divina. Vibra nella contemplazione della bellezza, anche in una opera d’arte: 2E’ la prova che l’eternità abita in noi e che ogni giorno, ogni istante, può esserne testimonianza2.Traspare nell’incontro con una icona mariana, nell’entroterra ionico, la bizantina odigitria, colei che indica la via, venerata come la Madre che libera dalla catene: 2Scrutai le profondità di quello sguardo transumano e cercai di svelarlo. Fu come introdurmi in un tunnel oscuro, in fondo al quale, però, una luce fioca indicava la direzione. Solo che ebbi paura e, prima che la lucerna si mutasse in bagliore, mi scossi e tornai sui miei passi. Non ero pronto, troppo umano, troppo imperfettamente umano2. E’ presente in quello incessante, urgente bisogno di verità, che non è una argomentazione, ma, caso mai, è come un seme; afferma: “qualcuno dice che le parole salvano o uccidono e che la vita ha senso se si pone al servizio della verità”.
Confida il protagonista all’inizio del romanzo : “non ho mai avuto un buon rapporto con Dio”. Nell’uomo inizia una nuova storia quando scopre che, da sempre, Dio ha avuto un buon rapporto con lui. E non lo chiama “servo”, ma “amico” (cf Gv 15,15). Lui diventa il solo e vero Amico. Così prega un mistico indiano: “O Amico divino! Se pure le tenebre della mia ignoranza sono antiche come il mondo, fammi comprendere realmente che con l’alba della tua luce l’oscurità svanirà, quasi non fosse mai esistita”(Paramahansa Yogananda).