Al Festival d’Autunno la testimonianza di Dio nelle terre di frontiera
«Scampia non è Gomorra, non significa irrecuperabilità». Lo ha detto anche al pubblico del Festival d’Autunno don Aniello Manganiello, dopo averlo sottolineato più volte, in passato, a chi gli chiedeva una sua impressione sul libro di Roberto Saviano, oggi diventato il soggetto di una fiction di grandissimo successo.
Lui, che per 16 anni è stato sacerdote nel quartiere napoletano in cui degrado, miseria e malaffare regnano quasi indisturbati, ha voluto trasmettere un messaggio chiaro ai presenti: «Abbattendo le barriere dei pregiudizi e sporcandosi le mani è possibile regalare un futuro a tutti coloro che sembrano davvero persi, disinteressati a una vita nel rispetto della legalità e delle regole».
Un messaggio che ha fatto riflettere i tantissimi presenti nella sala del Museo Marca quest’anno, si svolgono gli eventi culturali del Festival. Un messaggio certamente condiviso da un altro “prete di strada”, monsignor Mimmo Battaglia, per 25 anni presidente del Centro Calabrese di Solidarietà e da poco più di un mese vescovo della diocesi campana di Cerreto Sannita.
«Per noi è un onore avervi qui – ha detto il direttore artistico del Festival Antonietta Santacroce presentando la conferenza – perché in questo percorso che ha come protagonista il Sud, vogliamo lanciare un messaggio positivo: far comprendere che dalle situazioni di emarginazione e di degrado ci si può riscattare. Lo dimostrano le testimonianze di questi due straordinari preti di strada. Vogliamo andare al di là dei luoghi comuni, al di là di una fiction che non riesce a cogliere gli aspetti più profondi di una realtà complessa com'è quella di Scampia».
Stimolati dalle domande della giornalista Donatella Soluri, i due uomini di chiesa si sono raccontati. Don Aniello Manganiello ha ripercorso le tappe della sua vocazione. «Sono nato in una famiglia povera ma questo non mi ha portato a provare rabbia nei confronti di chi era più ricco. Piuttosto ho voluto mettermi a disposizione di chi viveva la stessa mia situazione». Poi la chiamata a Scampia: «Ero sacerdote in una parrocchia del quartiere Prati di Roma. Inizialmente non andai a Napoli con entusiasmo perché vivevo di pregiudizi. Che però son riuscito a superare guardando le sofferenze della gente che vive lì. Ci deve essere la capacità di entrare nella vita delle persone».
Per don Mimmo «la vocazione è stata sempre segnata da incontri e da volti». Come quello di un bambino di Vibo conosciuto in una giornata di ritiro, durante un'allegra partita di calcio che, balbettando, lo chiamò per nome: «Quando Dio chiama – ha detto - lo fa sempre per nome».
Poi qualche aneddoto. «Il primo ricordo di Scampia? Non appena arrivai, considerati i miei capelli un po' lunghi e incolti, con lo zainetto sulle spalle – ha raccontato don Aniello - mi scambiarono per un tossicodipendente. Capii così che anche loro vivevano di pregiudizi, proprio come i miei. Pian piano ho abbattuto ogni muro e ho capito che pure il peggiore dei camorristi ha dentro quella scintilla di bene che dobbiamo aiutare a portare fuori».
Il primo ricordo di don Mimmo, alla guida del Centro Calabrese di Solidarietà, è ancora un volto, quello di Stefano, un giovane che bussa alla porta della struttura e racconta la sua storia travagliata, fatta di fragilità e di rapporti difficili con la famiglia, in particolare con la madre: «Prete io credo nel tuo Dio, ma quando io lo incontrerò cosa gli racconterò della mia vita? - mi disse - Io sono un ragazzo sieropositivo. Mi puoi aiutare? E sai qual è il mio più grande rammarico? Non aver mai detto a mia madre “ti voglio bene”. Ebbene, Stefano si riscattò. Fece il suo percorso di riabilitazione, riabbracciò la madre. E prima di morire mi disse: “Dillo a tutti i ragazzi che questa vita è bellissima e che devono viverla”. Questa esperienza mi ha segnato profondamente».
Diverse le domande arrivate dagli utenti di Facebook che hanno seguito in diretta l'evento sulla pagina del Festival. “Quanto le manca il “suo” Centro Calabrese di Solidarietà e come intende, da vescovo, proseguire la sua missione di prete di strada?”, uno degli interrogativi proposti a don Mimmo. «Il Centro? Mi manca, è chiaro. E' stata la mia vita. La sofferenza per il distacco è tanta. Però è il Signore che ha deciso e riserverà qualche cosa di grande non per me ma per il Centro stesso. Il prete di strada - ha proseguito - lo faccio così come lo facevo prima, con molta semplicità, stando tra la gente, entrando nelle case delle persone, avvicinandomi ai più deboli».
A don Aniello è stato chiesto se la visione di Saviano non sia coerente con la situazione reale che si vive a Scampia. «Non ho mai negato il male e l'ho sperimentato anche io in quel quartiere: sono stato minacciato e ho anche rifiutato la scorta. Rimprovero però a Saviano di aver raccontato soltanto il peggio e di non aver dato una speranza di recupero nonostante l'azione di tante associazioni, di tanti uomini e donne di buona volontà che condividono un grande sforzo per il riscatto». Il sacerdote ha anche raccontato dei suoi rapporti non certo idilliaci con la politica napoletana, ricordando di aver spesso attaccato le istituzioni per operazioni di facciata ma anche per commistioni con la camorra.
Don Mimmo ha parlato poi della solitudine che può vivere un sacerdote, «che ha sempre accanto Dio ma a volte soli ci si sente. Io ho provato questa sensazione nel momento della morte dei miei ragazzi. In quel momento mi domandavo se Dio li avesse abbandonati. Ma, allo stesso tempo, in quel momento, ho trovato la forza di andare avanti proprio guardando il loro coraggio, la loro speranza. E nei ragazzi trovavo la forza per andare oltre alla solitudine».
Il messaggio finale, lasciato al pubblico in sala e a quello social, da parte dei due sacerdoti, è che «gli irrecuperabili non esistono». «Occorre cambiare lo sguardo, gli atteggiamenti, il modo di rapportarci con il prossimo», hanno detto.