Secondo appuntamento per ‘I believe’: a Matera gli scatti dei “vattienti” calabresi
Secondo appuntamento a Matera con il ciclo di mostre organizzate dalla Cine Sud di Catanzaro nell’ambito di Coscienza dell’Uomo. È stata inaugurata ieri, venerdì 5 luglio, “I Believe”, la mostra, in programma fino al 21 luglio, realizzata con gli scatti di Matteo Fantolini, il compianto reporter morto improvvisamente nella sua casa di Pinerolo. Ha lasciato i suoi lavori incompiuti, ma Coscienza dell’Uomo non poteva non rivolgere l’attenzione al progetto che si presentava originale e ricco di valore umano. Il rito religioso, in Italia e nel mondo, è oggetto dell’obiettivo fotografico che, con sensibilità e spiccata empatia, è capace di catturare non tanto i gesti, i simboli, i costumi propri di un rituale, ma la sua anima più profonda.
C’è qualcosa di magico nel lavoro di Fantolini chesceglie di raccontare il rito dal punto di vista umano, più che divino. Italia, Malesia, India, Thailandia. Un viaggio durato quattro anni alla ricerca non di come, ma di perché.
Secondo giorno a Matera con la mostra “I Believe”, dedicata a Matteo Fantolini, il ciclo di mostre organizzate dalla Cine Sud di Catanzaro si inserisce nell’ambito di Coscienza dell’Uomo, ed espone i lavori del compianto fotografo a cui non interessava conoscere i gesti e le preghiere, voleva capire perché un uomo scelga di farsi del male, di autoflagellarsi, di soffrire.
Come fa notare Riccardo Bononi nell'introduzione al catalogo, “c'è qualcosa che accomuna il reporter ai flagellanti. Così come i religiosi credono in un Dio e sono disposti al sacrificio fisico per Lui, allo stesso modo Fantolini crede nella Fotografia, la vive con passione e per Lei è disposto a scendere in campo, a girare il mondo, a vivere la delusione dell'insuccesso, ad andare avanti nonostante la strada per l'affermazione, nel contesto odierno, sia sempre più in salita”.
“Non c'è uno sguardo critico nelle immagini di Fantolini, non ci sono moralismi, né giudizi. C'è piuttosto profonda comprensione, ammirazione, empatia. Da ateo, il fotografo scende in campo senza pregiudizio alcuno, si unisce alla folla e vive con essa il rito, partecipa, respira e soffre con i fedeli. Ecco perché I Believe non è un lavoro come un altro. Non è una semplice riflessione sul rapporto uomo-Dio, - spiega - non è una dissertazione filosofica, seppur per immagini, su cosa spinga l'uomo a credere in un Dio”.
“È, piuttosto, la testimonianza della straordinaria forza umana quando crede davvero in qualcosa. E, ancor di più, è un tentativo di sdoganare il concetto corrente del dolore inteso come qualcosa di negativo, da cui fuggire, perché conseguenza di una ingiustizia. Nel mostrare al mondo i volti segnati e contriti, l’autore ci costringe a guardarli con occhi diversi, ci invita a non girarci dall’altra parte perché quel sangue non è frutto di violenza o malvagità, è figlio piuttosto dell’accettazione, della fede, del bisogno umano di sentirsi parte di qualcosa di più grande”.
"Il sangue e il dolore – scrive Bononi - sono in questo caso autoinflitti come forma rituale di purificazione, i ruoli di vittime e carnefici, coincidendo, sfumano completamente. A scioccare lo sguardo non è una qualche forma di ingiustizia, ma è la professione di fede di qualcuno".