Infarto, cardiologi interventisti: la via italiana che cambia le linee guida internazionali
È stato presentato al congresso della Società Europea di Cardiologia e simultaneamente pubblicato su JACC, Journal of the American College of Cardiology, la più importante rivista mondiale di cardiologia, lo studio Dubius, sulle strategie di trattamento di pazienti colpiti da infarto NSTE, del quale il dr. Roberto Caporale, della Cardiologia Interventistica dell’Ospedale Civile dell’Annunziata di Cosenza è co-Investigatore e autore.
“Con lo studio … la ricerca italiana fa scuola a livello mondiale e ridefinisce nuovi standard di trattamento della forma più frequente d’infarto, quella in cui l’arteria non è completamente ostruita (NSTEMI). Abbiamo dimostrato che l’esecuzione della coronarografia entro le 24 ore dall’evento, eseguita attraverso l’arteria radiale (dal polso), incide sui risultati più di quanto faccia la tempistica della terapia farmacologica e dirime l’annosa discussione se sia necessario o piuttosto svantaggioso somministrare farmaci antiaggreganti in tutti questi pazienti, prima di eseguire la coronarografia”.
Lo studio, spontaneo e indipendente, della società Italiana di Cardiologia Interventistica GISE, è stato condotto sotto la guida di Giuseppe Tarantini (Direttore della Cardiologia Interventistica dell’Università di Padova e Presidente del GISE) e di Giuseppe Musumeci (Direttore della Cardiologia dell’Ospedale Mauriziano di Torino), in trenta centri d’eccellenza distribuiti in tutta Italia.
“Volevamo individuare - spiega il dr. Caporale - la strategia di trattamento farmacologico più efficace e sicura nelle fasi che precedono la coronarografia. Era necessario valutare in modo rigoroso le implicazioni cliniche dell'approccio farmacologico più comunemente utilizzato, il cosiddetto pretrattamento, un carico con due farmaci anti-aggreganti che viene somministrato a tutti i pazienti fin dal primo sospetto di infarto. Il DUBIUS lo ha confrontato con una strategia selettiva, basata sulla somministrazione del secondo antiaggregante solo dopo la certezza della diagnosi ottenuta dalla coronarografia”.
In Italia ogni anno sono colpite da infarto sub-endocardico 80.000 persone, e di queste 55.000 vengono sottoposte a trattamento con stent coronarico.
“Pensiamo però – aggiunge il cardiologo - a chi deve invece sottoporsi al bypass o a quelli che dopo la coronarografia non hanno confermata la diagnosi d’infarto. I tempi di attesa per eseguire in sicurezza il bypass per chi ha avuto un precedente trattamento antiaggregante sono di 5-7 giorni, che il paziente deve trascorrere in ospedale, con aumento del rischio di complicanze e dei costi di gestione. Se il paziente non è stato pretrattato, questi tempi possono essere quasi azzerati, risultato ancora più prezioso in epoca di COVID-19”.
Lo studio prevedeva di includere oltre 2500 pazienti, assegnati casualmente, in base alla sequenza generata da un computer, a una delle due strategie (pretrattamento o assenza di pretrattamento), ma già dopo averne arruolati 1449 le analisi statistiche hanno dimostrato l’impossibilità di evidenziare qualsiasi differenza tra le due strategie.
“Non vi è quindi vantaggio – aggiunge - ad utilizzare indiscriminatamente potenti antiaggreganti, ma lo si può fare tranquillamente dopo una coronarografia eseguita rapidamente solo in chi ne ha bisogno. Abbiamo riscontrato un’incidenza di eventi avversi gravi (morte, infarto, ictus, sanguinamento) entro 30 giorni dall’arruolamento molto bassa (3%) e numericamente sovrapponibile nei due gruppi”.
La coronarografia è stata eseguita in oltre il 95% dei casi tramite la radiale, un’arteria del polso, “ed è una cosa della quale andiamo particolarmente orgogliosi, - sottolinea Caporale - perché si tratta di una tecnica un po’ più complessa ma molto più sicura per il paziente rispetto all’accesso dall’inguine, largamente utilizzata da quindici anni nel nostro centro, tra i primi in Italia. Nel 75% dei casi la procedura è stata eseguita entro circa un giorno dal ricovero. Il 72% dei pazienti è stato trattato con l’angioplastica nel corso dello stesso esame. Una minoranza di casi (6%) ha richiesto l’esecuzione di un intervento cardiochirurgico di bypass aorto-coronarico. In un paziente su cinque non è stata necessaria una procedura di rivascolarizzazione e in uno su dieci il sospetto diagnostico iniziale di infarto non è stato confermato”.
“La Cardiologia Interventistica italiana si distingue così a livello internazionale per una sperimentazione clinica in grado di influenzare le pratiche di trattamento dell’infarto. E il centro di Cosenza ha figurato ottimamente, risultando terzo su trenta nell’arruolamento, visto il gran numero di pazienti con infarto trattati annualmente e grazie alla costante collaborazione tra l’UOC di Cardiologia, diretta dal dr. Francesco de Rosa, e quella di Cardiologia Interventistica, diretta dal dr. Francesco Greco. I risultati del DUBIUS sono destinati a rivoluzionare gli standard di trattamento rispetto a tutti i precedenti studi internazionali e dimostrano che nella cura dell’infarto l’Italia è best in class, con eventi avversi a meno della metà rispetto al resto del mondo e senza differenze di standard di trattamento tra Nord, Centro e Sud del paese”.
“In sintesi – conclude Caporale - la ricerca cardiologica indipendente, cioè non sponsorizzata, attesta l’ottimo stato di salute della Cardiologia Interventistica italiana, in particolare nel trattamento della forma più frequente di infarto. Il DUBIUS ha dimostrato la più bassa incidenza di eventi avversi e il più esteso utilizzo dell’arteria radiale mai registrato in studi internazionali nello stesso ambito, chiarendo quanto l’esecuzione precoce della coronarografia sia più importante di un trattamento farmacologico aggressivo e indiscriminato, somministrato senza conoscere lo stato delle coronarie e il trattamento cui il paziente sarà effettivamente sottoposto (angioplastica, by-pass o sola terapia farmacologica). Il contributo della Cardiologia di Cosenza è stato di grande rilevanza”.