Così ‘ndrangheta e camorra facevano “il pieno” di gasolio. Un business da un miliardo di euro

Calabria Cronaca

Una sinergia tra mafie e colletti bianchi, che gli inquirenti definiscono “nefasta”, e che senza l’apporto dei secondi le prime, tra cui evidentemente anche la ‘ndrangheta, ben difficilmente avrebbero potuto far fruttare al massimo i guadagni derivanti da frodi fiscali.

Parliamo di quelle relative in particolare agli oli minerali, sempre più spesso oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, soprattutto per gli importi milionari sottratti a tassazione.

Un “settore” quest’ultimo che finora sembrava appannaggio dei soli specialistidelle cosiddettecartiere e delle frodi “carosello, non necessariamente legati a clan della criminalità organizzata.

Ma così pare non fosse ed è quanto emerge proprio dall’inchiesta “Petrol-Mafie Spa” (QUI), scattata stamani con l’esecuzione di 71 misure cautelari eseguire tra Napoli, Roma, Reggio Calabria e Catanzaro.

L’operazione è l’epilogo di indagini condotte su una duplice direttrice investigativa dalle Dda dei capoluoghi interessati – con il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e di Eurojust - e che hanno fatto emergere una gigantesca convergenza di strutture e pianificazioni mafiose, originariamente diverse, nel business della vendita illecita di carburanti e del riciclaggio di centinaia di milioni di euro in società petrolifere intestate a soggetti insospettabili e considerati dei meri prestanome.

Un business su cui avevano messo le mani da un lato la Camorra campana e dall’altro la ‘ndrangheta calabrese: sul primo fonte è emersa infatti la centralità del clan Moccia nel controllo delle frodi negli oli minerali; sul secondo, ovvero quello calabrese, il coinvolgimento invece delle cosche Piromalli, Cataldo, Labate, Pelle e Italiano, nel reggino, e dei Bonavota di S. Onofrio, gruppo di San Gregorio; Anello di Filadelfia e Piscopisani di Catanzaro.

LE INDAGINI DI CATANZARO

Sul versante delle investigazioni che hanno riguardato la ‘ndrangheta, l’indagine, avviata nel giugno 2018 dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, in prosecuzione della nota inchiesta “Rinascita-Scott” (QUI), si è incentrata sulle figure di alcuni imprenditori vibonesi attivi nel commercio di carburanti.

Si tratta di imprenditori che sono considerati espressione della cosca Mancuso di Limbadi, e collegati alle articolazioni sia del vibonese (come i Bonavota, Anello e Piscopisani) che del reggino (i Piromalli, Italiano e Pelle).

In particolare si sarebbero scoperti due sistemi di frode sulla vendita del gasolio elaborati, organizzati e messi in atto proprio dagli indagati e che vede coinvolte dodici società, cinque depositi di carburante e 37 distributori stradali.

LA BASE A VIBO VALENTIA

Dall’inchiesta dunque emergerebbe che soggetti ritenuti mafiosi, grazie alla collaborazione di imprenditori titolari e gestori di attività economiche in Sicilia, ed operanti nello stesso settore, abbiano costituito, organizzato e diretto un’associazione per delinquere con base a Vibo Valentia e finalizzata ad evadere l’Iva e le accise su prodotti petroliferi.

L’associazione avrebbe così commesso innumerevoli reati fiscali ed economici: contrabbando di prodotti petroliferi, emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, l’interposizione di società “cartiere”, la contraffazione e utilizzazione di Documenti di Accompagnamento Semplificati (DAS), il riciclaggio, il reimpiego in attività economiche di proventi illeciti, l’auto-riciclaggio, il trasferimento fraudolento di valori e altri.

LE MISCELE E GLI OLI IMPORTATI DALL’EST

Il sistema sarebbe consistito nell’importazione, perlopiù dall’est-Europa, di prodotti petroliferi artefatti (miscele) e oli lubrificanti, successivamente immessi in commercio come gasolio per autotrazione, con conseguenti e cospicui guadagni dovuti al differente livello di imposizione.

I prodotti sarebbero stati quindi trasportati, con della documentazione di accompagnamento falsa, presso i siti di stoccaggio nella disponibilità dell’associazione, a Maierato (nel vibonese) e Santa Venerina (nel catanese), pronti per essere immessi sul mercato (sia fatturato che completamente in nero) come “gasolio per autotrazione”, categoria merceologica di maggiore valore, soggetta ad un’accisa superiore, e con notevole margine di guadagno.

In questo modo, dal 2018 al 2019, si stima siano stati movimentati circa 6 milioni di litri di gasolio per l’autotrazione di provenienza illecita, cui corrisponde un’evasione di accisa pari ad oltre 5,7 milioni.

Inoltre, sono stati accertati degli episodi di omessa dichiarazione dell’Iva, con un’evasione di poco più di 661 mila euro ma anche di emissione di fatture per operazioni inesistenti per oltre 1,7 di milione e, infine, un mancato versamento dell’Iva per altri 1,7 milioni.

IL BUSINESS COI ROMANI E NAPOLETANI

Un’altra tipologia di frode, riconducibile a una seconda associazione per delinquere, contemplava il ricorso strumentale ricorso al deposito fiscale romano di una società, la Made Petrol Italia Srl, e sarebbe stata anch’essa promossa e organizzata a Vibo, con il contributo degli stessi imprenditori locali e con la partecipazione di indagati (soprattutto) romani e napoletani, a loro volta intranei ad associazioni camorristiche napoletane.

In questo caso, e secondo gli inquirenti, gli associati acquistavano da questo deposito degli ingenti quantitativi di prodotto petrolifero, formalmente riportato sui documenti come “gasolio agricolo” e, quindi, soggetto ad imposizione di favore, movimentando in realtà del vero e proprio “gasolio per autotrazione”, con un consistente risparmio di spesa ed elevatissimi margini di guadagno.

Ancora una volta, i sodali avrebbero così perseguito l’obiettivo di evadere le imposte e, quindi, di lucrare illecitamente su questi commerci, emettendo fatture per operazioni inesistenti, simulando la titolarità o la gestione di società “cartiere” in capo terzi, utilizzando documentazione mendace, riciclando o reimpiegando in attività economiche denaro provento di attività illecita, e così via.

Anche in questo ulteriore canale di contrabbando, peraltro, è risultata coinvolta una compagine catanese, facente capo a soggetti già implicati in precedenti attività investigative, come imprenditori considerati di riferimento delle famiglie mafiose di Catania: i Mazzei e Pillera.

In concreto, tra il 2018 e il 2019, mediante questo “sistema”, sarebbero stati movimentati, rispettivamente, oltre 2,4 milioni di litri e oltre 1,9 milioni di litri di prodotto petrolifero, con un’evasione da circa 1,8 milioni, e un’evasione Iva per 618 mila euro per omessa dichiarazione, oltre alla emissione di fatture per operazioni inesistenti per quasi 250 mila euro.

In questo frangente, inoltre, sarebbe emerso “il solido collegamento” tra gli indagati vibonesi e i gestori di un deposito fiscale di Locri, dove i campani e i siciliani avevano interesse ad avviare dei commerci stabili per sviluppare altre forme di frode.

GLI “APPETITI” DEI BOSS DEI MANCUO

Nella rete di contrabbando dei prodotti petroliferi e del conseguente riciclaggio, poi, gravi indizi convergerebbero sul coinvolgimento anche di esponenti di primo piano della cosca Mancuso, come gestori - seppure per interposta persona - di impianti di distribuzione di carburante.

Una ulteriore conferma della diffusività di questo fenomeno criminale e della capacità di propagazione dello stesso sono stati rinvenuti nel segmento investigativo che ha messo in luce il tentativo, sempre ad opera degli imprenditori vibonesi, insieme agli esponenti apicali della famiglia Mancuso, di aprire nuovi canali di importazione di carburante direttamente in Calabria, con l’avvio di trattative col rappresentante di un importante gruppo petrolifero internazionale, appositamente arrivato nella nostra regione Calabria.

Gli inquirenti hanno infatti monitorato l’incontro nel corso del quale si sarebbe trattata la realizzazione di un ambizioso progetto ingegneristico e commerciale, consistente nella realizzazione di un deposito fiscale-costiero di prodotti petroliferi, nell’area industriale di Portosalvo (nel vibonese), da collegare, attraverso una condotta sottomarina, ad una grande cisterna galleggiante, da collocare al largo della costa locale.

In ultimo, ma non meno rilevante, l’indagine avrebbe fatto luce sugli interessi della criminalità organizzata vibonese nel settore edile, nel quale sono forti gli indizi del totale controllo mafioso, da parte dei maggiori clan attivi sul territorio (i Mancuso, Bonavota, Fiarè-Razionale-Gasparro, Anello), soprattutto nelle forniture di calcestruzzo, per i maggiori cantieri all’opera nella provincia.

LE INDAGINI DI REGGIO CALABRIA

A Reggio Calabria, invece, sono giunte alla fine delle indagini condotte dal Gico locale e dallo Scido di Roma, con il coordinamento della Dda, che hanno riguardato una struttura organizzata, attiva nel commercio di prodotti petroliferi.

Struttura che, secondo gli investigatori, avrebbe utilizzato sistemi di frode principalmente per evadere le impostein modo fraudolento e sistematico”, con l’emissione e l’utilizzo delle cosiddette “Dichiarazioni di Intento”.

Il tutto sotto la direzione strategica di un commercialista e con la compiacenza di soggetti esercenti depositi fiscali e commerciali, con un controllo capillare dell’organizzazione criminale di tutta la filiera della distribuzione del prodotto petrolifero, dal deposito fino ai distributori stradali.

Le investigazioni puntavano a far emergere gli interessi della ‘ndrangheta, della mafia siciliana e della camorra, nella gestione del business del commercio di prodotti petroliferi sull’intero territorio nazionale.

GLI IMPRENDITORI DELLE COSCHE

Tra i principali membri apicali del gruppo spiccano quindi Vincenzo e Gianfranco Ruggiero (rispettivamente cl ‘35 e cl’ 61), considerati l’espressione imprenditoriale dei Piromalli, cosca di ‘ndrangheta che opera nel mandamento tirrenico della provinciale di Reggio Calabria e, segnatamente, nel locale di Gioia Tauro.

Tra le altre figure apicali, emergono poi Giovanni e Domenico Camastra (rispettivamente cl’ 64 e cl’ 71) con le attività a loro riconducibili e ritenuti espressione di un’altra cosca, quella dei Cataldo, attiva nel mandamento ionico reggino, in particolare nel locale di Locri; gli stessi sarebbero stati, nel tempo, anche al servizio di vari clan come i Pelle di San Luca, Aquino di Gioiosa Ionica, Cordì di Locri e Ficara-Latella di Reggio Calabria. Infine, spicca il nome di Giuseppe Del Lorenzo (cl’ 75), considerato contiguo ai Labate, clan dominante nella zona sud del capoluogo dello Stretto.

IL VOLANO DELLA FRODE

Le società investigate, considerate delle vere e proprie “cartiere”, affermando di possedere tutti i requisiti richiesti per poter beneficiare delle agevolazioni previste dalla normativa di settore, avrebbero presentato alla Italpetroli Spa di Locri - volano della frode - la relativa dichiarazione di intento per l’acquisto di prodotto petrolifero senza l’applicazione dell’Iva.

Il prodotto così acquistato, a seguito di diversi (e cartolari) passaggi societari, sarebbe stato poi ceduto, a prezzi concorrenziali, a clienti individuati.

Sempre in base alla tesi degli inquirenti, in sostanza, la presunta frode si innescava attraverso le forniture di prodotto (in regime di non imponibilità) effettuate dal deposito fiscale (nonché deposito Iva), “consapevole e promotore del sistema fraudolento”.

L’acquisto veniva effettuato, senza applicazione dell’Iva, da imprese cartiere che, senza i requisiti richiesti dalla normativa per assumere la qualifica di esportatore abituale, presentavano dichiarazioni d’intento false.

Questi operatori, formalmente amministrati da prestanome nullatenenti, sarebbero stati riconducibili e gestiti direttamente dall’organizzazione criminale.

Le società “cartiere”, attraverso dei broker operanti sul territorio calabrese, campano e siciliano, vendevano così ai clienti finali a prezzi assolutamente concorrenziali, al di sotto del valore di mercato, sfruttando indebitamente il vantaggio economico dell’Iva non versata.

In merito, l’organizzazione, a seguito di un controllo fiscale nei confronti dell’Italpetroli, avrebbe adottato una serie di accorgimenti che avrebbero portato ad un mutamento del sistema fraudolento optando per la drastica soluzione di omettere il versamento dell’imposta sul valore aggiunto e sulle accise e, di conseguenza, mandare il deposito definitivamente in default.

UN GIRO DA QUASI 800 MILIONI

Nel corso delle indagini è stato quindi ricostruito un giro di false fatturazioni per un ammontare imponibile complessivo pari ad oltre 600 milioni di euro e di Iva dovuta per più di 130 milioni.

Appurato poi un omesso versamento di accise per circa 31 milioni di euro; al riguardo le investigazioni hanno consentito di accertare che i membri del sodalizio, nella fase di default, avrebbero formato e trasmesso all’Agenzia delle Dogane un modello F24 (con attestazione falsa di “pagato”) attestante il pagamento delle accise dovute dalla Italpetroli per il mese di marzo 2019, per un importo di circa 11 milioni di euro.

Ciò col duplice fine di scongiurare eventuali controlli da parte dell’Amministrazione Finanziaria e, di conseguenza, proseguire con i loro “affari”.

Nel mese di maggio del 2019, poi, a riscontro all’attività investigativa, è stata sequestrata una somma contante di poco più di un milione di euro che era nascosta all’interno di un’autovettura modificata appositamente per l’occultamento e il trasporto della valuta.

Infine, i proventi illeciti, così ripartiti dai membri dell’organizzazione, sarebbero stati in quota parte reinvestiti nello stesso circuito criminale o impiegati in altre attività finanziarie ed imprenditoriali, determinando così un giro di riciclaggio-autoriciclaggio, per un importo complessivo di oltre 173 milioni di euro.

Quota parte di questo importo (oltre 41 milioni) sarebbe stato riciclato su conti correnti esteri riconducibili a società di comodo bulgare, rumene, croate e ungheresi, per poi rientrare nella disponibilità della stessa organizzazione medesima.

GLI ARRESTI A ROMA E NAPOLI

Alla fine sono state quindi eseguite 71 misure personali a carico di altrettante persone, di cui 56 ordinanze cautelari e 15 fermi, oltre a sequestri per poco più di 946 milioni di euro.

La Dda di Napoli ne ha eseguite 10 (6 in carcere, 4 ai domiciliari) apponendo sigilli a beni per circa 4.500.000 euro.

A Roma, invece, sono state raggiunte dalle ordinanze 23 persone (10 in carcere e 13 agli arresti domiciliari), con sequestri per oltre 200 milioni di euro.

GLI ARRESTI A CATANZARO

LaDda di Catanzaro ha invece emesso i 15 fermi di indiziato di delitto e sequestrato beni per 142 milioni nelle province di Catanzaro, Vibo, Reggio Calabria, Crotone, Napoli, Salerno, Verona, Catania, Palermo, Messina, Ragusa, Siracusa, Caltanissetta, riconducibili (soprattutto) a società di capitali e a ditte individuali operanti nel settore del commercio di carburanti e dei trasporti.

Sigilli anche a numerosi beni immobili in particolare: 15 imprese operanti nel settore del commercio di carburanti che hanno in gestione 6 depositi e 30 distributori di carburante; 8 imprese edili; 2 imprese di trasporti; 1 società di commercio veicoli; 2 imprese del settore agricolo; 6 società di servizi vari; 161 beni mobili; 249 immobili (tra i quali figurano terreni, appartamenti e ditte).

Sono stati quindi raggiunti dal provvedimento di fermo: Alberto Pietro Agosta, cl.’86 di Sant’Agata Li Battiati (CT); Francescantonio Anello, cl.89 di Filadelfia (VV); Luigi Borriello, cl.’75 di San Giorgio a Cremano (NA); Antonio D’amico, cl.’64 di Vibo Valentia; Giuseppe D’amico cl. 72 di Vibo Valentia; Salvatore Giorgio cl.’74 di Chiaravalle Centrale (CZ); Francesco Mancuso, cl. 57 di Limbadi (VV); Silvana Mancuso, cl. 69, di Limbadi (VV); Francesco Monteleone, cl. 85, di Vibo Valentia; Irina Paduret, cl. 86, di Milano; Francesco Saverio Porretta, cl. ’74, di Milano;

Rosamaria Pugliese, cl.’75, di Nicotera; Domenico Rigillo, cl.’72 di San Vito Sullo Ionio (CZ); Giuseppe Ruccella, cl. 81 di Filogaso (VV); Alessandro Primo Tirendi, cl.’82 di Gravina di Catania (CT).

GLI ARRESTI A REGGIO

A Reggio Calabria, infine, sono state eseguite 23 misure cautelari personali (19 in carcere e 4 ai domiciliari) e sequestri per oltre 600 milioni di euro.

In carcere sono così finiti: Gianfranco Ruggiero cl. ‘61, Giuseppe DE Lorenzo cl. ‘75, Antonio Casile cl. ‘69, Giovanni Camastra cl. ‘64, Domenico Camastra cl. ‘71, Cosimo Bonafortuna cl. ‘75, Salvatore Sabatino cl. ‘69, Camillo Anastasio cl. ‘64, Mattia Anastasio cl. ‘91, Luigi DE Maio cl. ‘80, Roberto Murolo cl. ‘79, Mario Gitano cl. ‘85, Luigi Devoto cl. ‘91, Salvatore Amoroso cl. ‘66, Raffaele Cepollaro cl. ‘88, Sergio Leonardi cl. ‘78, Carmelo Fabretti cl. ‘80, Eugenio Barbarino cl. ’84, Orazio Romeo cl. ‘69.

Ai domiciliari, invece, Francesco Stefano Morabito cl. ‘64, Antonio Di Mauro cl. ‘74, Carla Zeccato cl. ’68 e Antonino Grippaldi cl. ‘68.