Processo Aemilia, le motivazioni: “Cosca emiliana autonoma rispetto al clan Cutrese”
È la capacità di infiltrazioni nel tessuto economico-imprenditoriale sarebbe l’elemento che caratterizza la cosca di Cutro al centro del maxi processo Aemilia.
Lo si legge in un passaggio delle oltre 2.600 pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado, con la quale sono stati inflitti quasi 700 anni di carcere a 113 persone (33 delle quali accusate di associazione mafiosa). I condannati sono stati 91 in tutti, 27 invece gli scagionati tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni (QUI).
I giudici sono concordi nell’affermare l’autonomia della cosca emiliana, ma sempre in sinergia con il clan degli Grande Aracri di Cutro. Per i togati il vertice è il boss Nicolino Grande Aracri, la cui collaborazione con la giustizia è stata ritenuta inattendibile dalla Dda di Catanzaro. (LEGGI)
Le due cosche, sempre secondo i magistrato, operavano in stretta collaborazione, in “una coesistenza sinergica della tradizionale area militare con quella moderna imprenditoriale”, coniugando “vecchie e nuove modalità di azione, in grado di alimentare la capacità di infiltrazione della consorteria in una spirale potenzialmente senza fine”.
Nella sentenza si specifica che la “cartina di tornasole” sia rappresentata dalle “numerose riunioni che venivano organizzate per trattate di questioni e affari che riguardavano l’intero sodalizio e alle quali partecipavano indifferentemente tutti gli esponenti dell’associazione senza alcuna distinzione tra le posizioni dei sodali».
Il clan agiva in Emilia utilizzando “sistematiche azioni estorsive e usurarie commesse soprattutto in danno sia di soggetti di origine calabrese residenti sul territorio emiliano, sia ai danni di imprenditori locali in difficoltà economiche”.
Il tutto con “una modalità intimidatoria abituale della organizzazione volta a rendere arrendevoli e accondiscendenti gli imprenditori”.
I boss e i gregari avrebbero poi attuato diverse vessazioni “avvalendosi della condizione di assoggettamento e di omertà connessa all’ormai diffusa conoscenza della natura e della forza del sodalizio” sia nella provincia reggiana che in quella e piacentina.
I giudici rilevano anche “l’avvicinamento e il coinvolgimento di personaggi gravitanti nel mondo della politica locale e degli organi di informazione e rapporti con alcuni esponenti delle forze dell’ordine, che hanno dimostrato una vera e propria partecipazione agli scopi dell’associazione mafiosa mettendosi di fatto a disposizione dell’associazione mafiosa”.