Giovanni Lentini sulla cultura e l’innovazione
Una settimana fa, con l’approvazione di un emendamento proposto dalla Lega alla Camera e su cui c’era il parere positivo del governo, è stato eliminato il fondo per l’innovazione tecnologica a favore delle regioni meridionali.-si legge in una nota di Giovanni Lentini- Voglio iniziare questo mio breve intervento partendo da questo episodio perché esso dimostra, ancora una volta, che non si comprende che il Paese non cresce se non cresce il Mezzogiorno e che non cresce se non si sviluppa una grande capacità di innovazione tecnologica che accompagni la produzione dei beni materiali e immateriali. Nel corso degli anni i governi hanno pensato che ridurre i fondi alla ricerca e alla innovazione fosse una politica giustificata dalla necessità di fronteggiare la crisi, senza capire, invece, che esse sono l’unica via per ridare competitività al sistema paese e per uscire dalla crisi rilanciando i brevetti italiani, valorizzando il patrimonio culturale, impegnando i nuovi saperi e le nuove competenze nell’apertura di più avanzate frontiere di intelligenza scientifica e di sensibilità umanistica. Occorre ribadire con forza che non c’è sviluppo senza modernità, non c’è progresso senza amore per il futuro, non c’è solidità dell’economia e, quindi, della stessa democrazia, senza la continua, irrinunciabile necessità di stare nella storia, di essere presenti nei tempi con originalità, autonomia, identità. Questo è possibile solo accettando la sfida dell’intreccio intellettualmente esaltante tra cultura e innovazione, tra passato e progetto, tra conservazione sterile e sempre più faticosa del patrimonio culturale e, invece, sua proiezione nelle dinamiche sociali ed economiche.-continua la nota-Parlare di sviluppo in Italia e nella nostra provincia non può non significare parlare di economia della cultura, di uso delle tecnologie nella gestione e valorizzazione dei beni culturali, nella loro tutela e preservazione, della necessità di comunicare un settore che si sta affermando come il nuovo Made in Italy. Con un valore aggiunto prodotto di circa 167 miliardi di euro, 3,8 milioni di occupati e oltre 900.000 imprese coinvolte, le attività connesse alla valorizzazione e promozione del patrimonio culturale costituiscono una vera e propria filiera produttiva, con un impatto positivo sull’economia, ma anche sull’immagine e sul ruolo internazionale del Paese.
E’ questa l’unica via per non essere messi ai margini del mercato e per consentire una funzione/fruizione del bene che vada al di là della semplice contemplazione per interagire con le aspirazioni alla crescita economica, sociale e civile delle popolazioni. Bisogna stimolare l’innovazione, la ricerca, le conoscenze specialistiche. La contaminazione tra antico e moderno deve essere il nuovo modello di relazioni culturali, obiettivo di una politica che recupera e rilancia l’identità del territorio attraverso l’impegno, sollecitato e favorito, di vocazioni imprenditoriali, competenze culturali, interessi sociali. Davvero tanti sono i filoni di un possibile disegno di sviluppo che produca nella nostra provincia attivazione di risorse, progettualità, ricerca, innovazione, cambiamento. Proviamo a darne un elenco, persino parziale, senza entrare nel merito: agricoltura specializzata in prodotti di qualità, paesaggio e ambiente, fonti di energia pulita, turismo, riqualificazione dei centri storici, distretti d’eccellenza, archeologia sommersa, artigianato tradizionale e artistico, enogastronomia, gestione dei parchi naturali, musei e biblioteche,archivi storici, bonifica e antica Kroton, parco archeologico di Capocolonna, gestione dell’Area marina protetta, formazione universitaria al servizio di questa idea di sviluppo e delle reali necessità del territorio. Diventa fondamentale, a questo punto, la capacità della classe dirigente territoriale di essere all’altezza di questa sfida. E’ un’opportunità straordinaria per una provincia da lungo tempo in crisi, che non può pensare di rigenerarsi senza conoscenze specialistiche che le consentano la conquista di nicchie di mercato consolidate.-aggiunge Lentini-L’investimento nell’innovazione tecnologica, quindi, può e deve diventare sinonimo di investimento nel patrimonio culturale come grande opzione di sviluppo. Per far questo è indispensabile creare delle forti sinergie istituzionali e incentivare le collaborazioni tra pubblico e privato. Viviamo nella società della conoscenza, basata su un’informazione che le tecnologie rendono sempre più immediata, pervasiva, a volte ridondante; una conoscenza che è stata indicata come fattore fondamentale di crescita e competitività per l’Europa sin dal 2001, con la strategia decisa a Lisbona dai governanti europei; una conoscenza, dunque, a cui viene riconosciuto un ruolo fortemente positivo e trainante per lo sviluppo e che, necessariamente, deve basarsi su risorse fondamentali come il patrimonio culturale e la cultura in generale.
Ci si trova, in questo momento, di fronte ad una sfida globale a cui si può rispondere solo mediante l’assunzione di un nuovo modello di sviluppo, definito “sostenibile”, in cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri. La prospettiva finale è un cambio di mentalità che volga alla comprensione del nuovo che viene anche dalle tecnologie, dallo sviluppo dei servizi interattivi e dalla comunicazione multimediale. Concludo ritornando a quanto dicevo prima: la sfida della modernizzazione e dell’innovazione è straordinariamente importante per la Calabria e per il nostro territorio. Se, infatti, alle arretratezze storiche che caratterizzano il nostro passato e il nostro presente aggiungiamo la presenza di una pubblica amministrazione spesso pletorica, dotata di scarsa qualità, con basse conoscenze tecnologiche e insufficiente cultura europea, capiamo che perdere l’appuntamento irrinunciabile con l’innovazione, con il dinamismo burocratico che richiede la competitività, significa rassegnarsi definitivamente ad essere un’economia assistita nella quale i giovani non avranno alcuna possibilità di mettere alla prova il loro sapere e il loro talento e saranno costretti a cercare fortuna altrove. Gli ultimi dati Svimez sono impressionanti: seicentomila persone hanno lasciato il sud negli ultimi dieci anni. Solo nel 2009 sono andati via in 109mila, il 54% dei quali con laurea o diploma. Nel 2050 il sud avrà due milioni di under 30 in meno e il 18.5% sarà over 75; il centro-nord diventa più giovane del sud, che perde la sua cultura, la sua intelligenza sociale.-conclude la nota- Dal 2006 al 2010 più della metà-281mila-dei posti di lavoro persi in Italia si è persa al sud. Di che cosa parliamo, allora? Ecco perché accettare la logica del cambiamento è l’unica strada, e forse l’ultima, che ci resta per uscire dal tunnel della definitiva decadenza.