I riti della “Settimana Santa” in Calabria
Si può narrare la piega più riposta dell’anima dei calabresi, il loro tormento e quello della terra che li ha generati, attraverso i riti della “Settimana Santa”? In quel “farsi del sacro”, che è, come scriveva Rudolf Otto, “mistero tremendo e fascinoso”?
Non solo si può, ma se ne scopre la profondità e la bellezza, allorché si vedono confluire in questi riti tutte le categorie antropologiche, oltre ad una simbologia teologico-spirituale di notevole profondità. Tant’è che negli scorsi anni i sistemi festivi della “Settimana Santa” (la settimana, cioè, che precede la Pasqua) sono stati oggetto di attenzione sempre maggiore da parte di studiosi di antropologia, etnografi, etnomusicologi, fotografi e anche da parte delle comunità locali che, con grande solerzia, si fanno carico ogni anno di rinnovarli.
Organizzati da confraternite e congregazioni laiche con preparativi che durano tutto l’anno, queste modalità rituali teatralizzano i cicli della morte-rinascita presenti, fin dall’antichità, in tutte le civiltà agricole, dove, nel culto alla Dea Madre-Terra che governa la vita e l’agricoltura, il seme è sepolto, ma poi rinasce come spiga e come grano.
Le società, quindi, attraverso queste forme rituali, mettono in scena il loro desiderio di sopravvivere, di confrontarsi con la morte, superandola nel nome della vita, e pongono domande di presenza, aggregazione, desiderio di continuare ad esserci.
Se i riti di passione e di resurrezione rischiano di essere ridotti, dagli osservatori distratti, a colore, a folklorismo deteriore, a luoghi di esibizione e di “passerella”, studiandoli criticamente si scopre che queste modalità della cultura folklorica costituiscono memoria storica e sono mezzo per concentrare la propria identità e recuperarla criticamente.
E. attorno ai riti della “Settimana Santa”, tendono a ricomporsi i lutti della comunità, per edificare il sentimento del dolore, la manifestazione del cordoglio, la partecipazione al lutto, la rappresentazione della morte.
La popolazione esorcizza le forze malefiche presenti nel suo vivere quotidiano e, rinnovata e purificata, ritrova la gioia della vita che non muore, in un anelito collettivo di felicità e di riscatto umano e territoriale.
Così, ad esempio, a Soriano Calabro, i riti paraliturgici del triduo pasquale, che coincidono con l’apogeo del Santuario domenicano, esprimono la rinascita dopo il cataclisma del 1783, in virtù dell’evidente rapporto con le rovine oggi superstiti: quelle rovine, che storici e viaggiatori hanno ribattezzato “le magnifiche rovine”, per la loro bellezza e per la suggestione che riescono a suscitare ancora oggi, sono una evidente allegoria della risurrezione.
Di particolare interesse antropologico è il rito “L'affruntata”(incontro, in calabrese): una rappresentazione religiosa che si tiene nei comuni delle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e nella provincia di Catanzaro, dove è conosciuta anche con il nome di “Cunfrunta”, nel periodo di Pasqua. È di carattere prettamente popolare, con origini pagane: la manifestazione si svolge per le strade e nelle piazze dei comuni, dove tre statue (raffiguranti Maria Addolorata, Gesù e san Giovanni vengono trasportate a spalla, da quattro portatori per statua, per simboleggiare l'incontro dopo la resurrezione di Cristo.
La statua di san Giovanni fa la spola tra le altre due per tre o cinque volte (il numero dei passaggi varia da paese a paese) avanti e indietro, con passo sempre più veloce, come messaggero della resurrezione di Cristo. All'ultimo passaggio si incontrano correndo davanti a Gesù san Giovanni da una parte e L'Addolorata dall'altra. All'incontro il velo nero del lutto viene tolto dalla statua di Maria, la cosiddetta "sbilata" , lasciando visibile un vestito di festa.
Ad una mia lettura in chiave antropologico-femminile , nella caduta del mantello nero può essere intravista l’emancipazione e la liberazione della femminilità perché cadendo il mantello, cade la morte di Cristo che è anche la morte della violenza e del dominio di un uomo sull’altro uomo; la morte della religione come sacrificio, come violenza, come sopraffazione e arroganza. È la morte insomma di tutto quello che costituisce l’immagine «virile» del maschio. Nella morte di Gesù è adombrata la morte del potere maschile. E nell’emergere dell’ abito festoso della Madonna c’è l’ermeneutica tutta femminile e non-violenta di un nuovo modo di vivere e di una diversa società, fondata sui valori femminili dell’accoglienza, della tenerezza, dell’ascolto, del prendersi cura degli altri. Perché nel mutare gli abiti di lutto in quelli di letizia, c’è il viaggio negli inferi della violenza e della morte che approda all’alba della creatività e della vita, laddove la “Mater Dolorosa” scuote da sé il mantello nero dei contenitori di morte, dei sepolcri del male e delle tombe di violenza. E fa festa coi suoi figli, adornata con gli abiti splendenti della “Madre Gloriosa”.
Diverse sono quindi le retoriche e le simbologie che caratterizzano i cerimoniali calabresi e le loro forme sono le più varie: si va dalle processioni, che prevedono anche l’uso di grandi ingegni e gruppi lignei portati a spalla, alle messe in scena, con attori, delle vicende di passione, morte e resurrezione di Cristo. Le processioni del venerdì santo sono costruite generalmente su un percorso ellittico per le strade dei paesi: i cortei partono dalla chiesa principale e tornano laddove sono partiti in una circolarità professionale che riproduce, nel suo modello, un antichissimo archetipo cosmogonico perché il moto circolare è quello più perfetto ed è eterno, come il moto delle sfere celesti.
L’intero territorio calabrese è segnato, in maniera abbastanza omogenea, da queste forme festive, con una ricchezza e un’articolazione che stupiscono per la grande capacità organizzativa e per il lungo impegno profusa da intere comunità. Ne possiamo individuare i tratti più remoti e lontani, a volte precristiani (si pensi ai germogli portati nelle chiese il giovedì santo), altre volte riconducibili ai riti medioevali, al periodo della controriforma, alle influenze spagnole.
Lunghissimo sarebbe ricordare tutti i paesi di Calabria che vivono con intenso senso religioso la Settimana di Passione : accennerò soltanto a qualcuno di questi, non essendo qui possibile essere esaustiva.
A Laino Borgo si svolge “La Giudaica”, rappresentazione della passione e morte di Cristo cui partecipano ben 150 attori.A Nocera Torinese si perpetua da secoli il rito dei “Vattienti”, con profondo trasporto emotivo e finalità espiatoria e purificatrice. A Cassano si snoda dalla Cattedrale per le vie del paese la suggestiva processione delle “Varette”. Anche ad Amantea si svolge la processione delle “Varette” e dei “Misteri”. Ed ancora ricordiamo le coinvolgenti processioni di Girifalco e Caulonia dove si svolge il “Caracollo”, nome che deriva dall’arabo “Karkhara” e significa “girare la processione “. Ricordiamo i “Misteri” di Polistena; le usanze pasquali albanesi.
A Catanzaro la processione “La Naca” affonda le sue radici nel periodo della dominazione spagnola, ma sicuramente si rifà alle sacre rappresentazioni medioevali. Il termine dialettale Naca viene dal greco (nachè) e significa Culla, in pratica è la portantina dove Gesù è deposto. La Naca è ornata di damasco raso e seta, di fiori, lumi ed angioletti di cartapesta, uno dei quali porta i simboli della Passione: il calice, i chiodi ed il martello. Questa veniva portata a spalla dai rappresentati delle corporazioni dei mestieri, per molto tempo, infatti, ebbero questo privilegio i calzolai, i contadini e gli artigiani. Oggi, invece, la Naca viene portata dai rappresentati delle forze dell’ordine, nell’ultimo periodo i Vigili Del Fuoco. L’andamento dei portatori dev’essere leggermente “annacante” (dondolante). Alla “Culla” segue la Madonna Addolorata, vestita con un abito nero e rappresentata con un cuore trafitto da sette spade. Questi sono i sette dolori della Vergine e Madre di Cristo. La processione viene realizzata dalle confraternite e dalle cappelle delle arti e dei mestieri.
Anche nei piatti tipici della Pasqua si rintracciano elementi legati al culto della fecondità: simbolo di rinascita, di nucleo vitale sono le uova sempre in numero dispari, con cui si adornano i tortini di pane pasquali, i pani rituali antropomorfi e gli altri cibi pasquali.
Vivere i riti della “Settimana Santa” significa vivere la Pasqua come momento culminante di rinascita catartica: le chiese, le strade, le piazze, i vicoli, i cimiteri diventano spazi scenici, luoghi sacri e “paesaggi sonori” dove viene recitata la morte e la resurrezione di Cristo: in essa si identificano donne e uomini che hanno conosciuto esperienze dolorose di distacco, di abbandono, di morte, e che, nella “Settimana Santa”, respirano finalmente un anelito di felicità e di riscatto umano e territoriale.