Rende: la figlia del giudice Borsellio incontra studenti e cittadini
“Si può dire anche di no nella vita. Io a 19 anni ho deciso che dovevo continuare a percorrere la via della vita e non della morte e questo anche se tu sei la storia che ti precede e che ti permette di parlare con serenità della nostra storia. Il vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise. Noi abbiamo avuto con la sentenza della Borsellino quater la certezza del depistaggio e per questo abbiamo il dovere di chiedere verità allo Stato e abbiamo il dovere di raccontare a voi ragazzi la nostra storia”: è un narrare senza retorica, ma con grande senso di giustizia quello di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo, ucciso nella strage di Via d’Amelio, ai ragazzi degli istituti d’istruzione superiore rendesi.
All’incontro di venerdì mattina al museo del Presente, promosso dall’associazione Yaraiha e patrocinato dal comune di Rende e dalla camera penale di Cosenza, ha partecipato il sindaco Marcello Manna che in apertura ha affermato: “proseguire il percorso dei laboratori di cittadinanza attiva con l’iniziativa di oggi rappresenta momento di riflessione sulla storia e sulla nostra memoria. La strage di via d’Amelio e le relative indagini sono uno dei momenti più bui della nostra democrazia: c’è una verità che ancora non è uscita ed il ruolo dei collaboratori di giustizia è stato determinante nella distorsione di questa verità. È un segnale allarmante per la salvaguardia dei nostri diritti, della costituzione e dei principi continuamente violati. I grandi depistaggi sono sempre stati opera della politica giudiziaria”.
“Dopo anni di attesa -ha affermato l’assessora Marina Pasqua nel dibattito coordinato da Sandra Berardi- Fiammetta Borsellino ha scelto di rompere questo silenzio e parlare alle giovani generazioni e lo ha fatto per dire di non fidarsi di chi da pacche sulle spalle, ma di fidarsi di chi da risposte. Occorre apportare un vero cambiamento che sia quello delle coscienze. L’assunzione dell’emergenza come giustificazione politica della rottura delle regole del gioco, che nello stato di diritto disciplinano la funzione penale, equivale alla legittimazione di un intervento punitivo non più rispettoso delle garanzie. Le leggi dell’emergenza hanno allargato il potere giudiziario alimentando soprusi, permettendo ai giudici di travalicare la legge. L’uscita dal silenzio di Borsellino ha in sé il segno di una critica spietata a queste prassi e ribadisce al contempo il senso forte di rispetto per le istituzioni. Proprio perché la democrazia e lo stato di diritto si difendono con il rispetto delle loro regole, è dunque necessaria una rifondazione garantista del diritto penale eliminandone la componente populista che purtroppo, oggi, lo caratterizza”.
Fiammetta Borsellino si e poi rivolta ai ragazzi esortandoli alla ricerca del: “vero amore che è capacità di amare ciò che non ci piace per cambiarlo. È lo stesso sentimento che ha spinto mio padre a non scegliere da picciriddru la via più facile quando nel dopoguerra giocava a pallone con i figli dei mafiosi. Ha invece scelto di cambiare lo stato delle cose combattendo ingiustizie e povertà. Alto era il suo senso di fedeltà allo Stato inteso come salvaguardia di diritti e libertà. Egli era però consapevole che quando politica, istituzioni e mafia si mettono d’accordo non vanno più verso la legalità. Per sconfiggere la criminalità, ripeteva, è necessario studiare: la mafia non si combatte con le pistole, ma con la conoscenza e la cultura”. “Futtitinne”, diceva “non bisogna cedere all’omertà e alla paura, ma denunciare e rivolgersi allo stato” e ogni sera davanti lo specchio si chiedeva se anche quel giorno si fosse guadagnato lo stipendio”.
È dura la denuncia della Borsellino che, con la veemenza e la durezza di quegli anni senza il padre che nessuno potrà restituirle se non quel senso di giustizia, dichiara: “Cosa nostra non può essere delegata solo alla magistratura o alle forze dell’ordine. Mio padre non aveva alcun sostegno ed è morto perché era solo, perché le mele marce dello stato hanno creato questo corto circuito per cui mio padre era stato isolato: non morirò per mano della mafia, affermava, ma la mafia mi ucciderà quando avrà la certezza che sarò rimasto solo”.
E così fu: non fa trapassare alcuna sorta di emozione Fiammetta Borsellino -più volte ha ripetuto di essere ormai pacificata con la sua storia di dolore- neanche quando dice senza mezzi termini: “la responsabilità politica e morale della sua morte è di chi poteva fare e non ha fatto. Questa responsabilità San accertata e non bisogna accontentarsi del ricordo e della memoria, ma pretendere la verità nonostante dopo ventisette anni il percorso di questa verità appaia inesorabilmente compromesso. Tanti in questo senso i depistaggi e le omissioni: si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage. Se oggi si sa qualcosa è grazie a Gaspare Spatuzza e al suo pentimento. Diverso il discorso per Scarantino: per questo bisogna riconoscere le parti malate dello stato affinché non si ricommettano più gli stessi errori”.
Ed è proprio sulla perdita di memoria storica che si sofferma il sociologo Ciro Tarantino: “Gianni Rodari sosteneva che la verità è una malattia e oggi assistiamo ad una molteplicità di verità prive di sapere. La memoria collettiva deve invece essere alimentata dalla duplice volontà di sapere”.
Il presidente della camera penale di Cosenza, Maurizio Nucci, si è espresso sul regime di detenzione del 41 bis: “I diritti del soggetto non vengono garantiti, la costituzione violata perché viene a mancare il diritto alla speranza. Bisogna entrare nell’ottica di usare gli strumenti a disposizione del legislatore”.
E proprio sul regime detentivo differenziato si è soffermata Fiammetta Borsellino ricordando l’esperienza che l’ha vista entrare in carcere e conoscere chi era sotto il 41 bis: “La vera morte è quella loro non quella di mio padre: questo l’ho capito dopo aver incontrato i mafiosi sotto questi regime carcerario. Do la colpa al magistrato che si è girato di spalle, no a chi ha premuto quel pulsante. Dopo gli incontri con i responsabili della morte di mio padre ho avvertito un senso di pace, scevro da qualsiasi rabbia o idea di vendetta”.
A concludere l’incontro l’avvocata Lisa Sorrentino che ha sottolineato la necessità di avere: “un approccio critico senza verità precostituite”.