Aziende fatte fallire e guadagni riciclati: così avrebbero “ripulito” milioni di euro
Portare al fallimento società non ritenute più idonee allo scopo illecito e riciclare i relativi proventi delittuosi. Sarebbe stato questo l’obbiettivo di una “struttura organizzata” scoperta dalle fiamme gialle di Reggio Calabria, con il supporto del Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata.
Stamani - nel corso dell'operazione denominata Default - è così finito in arresto Vincenzo Morabito, 51enne reggino, mentre nei confronti dell’ex convivente, Giusi Larosa (38 anni) è scattata a la sospensione dall’esercizio di imprese (o uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese con interdizione dalle attività ad esse inerenti) per la durata di un anno.
L’ordinanza, richiesta della Procura della Repubblica, diretta da Giovanni Bombardieri, è stata emessa dall’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale locale.
I due - a vario titolo - sono ritenuti responsabili dei reati di associazione per delinquere, riciclaggio, e omessa dichiarazione, emissione di fatture per operazioni inesistenti, occultamento o distruzione di documentazione contabile, bancarotta fraudolenta e “per essersi associati tra loro e con altri soggetti, allo scopo di commettere una serie di delitti in materia tributaria”.
I finanzieri hanno inoltre dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo d’urgenza, emesso dalla Direzione Distrettuale, nei confronti di Girolamo Strangi, di 75 anni, Demetrio Rossini, di 46, Immacolata Leonardo, di 53, e della stessa Giusi Larosa, e ha colpito ben nelle province di Reggio Calabria, Siena, Milano, Roma, Catania e Vicenza, il cui valore è stimato complessivamente in 5 milioni di euro.
LE INDAGINI
Le misure cautelari rappresentano l’epilogo delle indagini condotte dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza, sotto il coordinamento della Procura reggina, in relazione ai fallimenti - dichiarati dal Tribunale di Reggio Calabria tra il 2010 e il 2015 - delle imprese “Gtm.Com. Sas di Domenico Tavani”, “Southware Srl”, “F.D. Elettronics Srl” e “Gi.Sa Srl”, che operavano nel settore del commercio di elettrodomestici ed apparecchi televisivi.
Le investigazioni avrebbero permesso di rilevare l’esistenza di una presunta “associazione” composta da 10 persone, e che secondo gli inquirente sarebbe stata dotata di un “meccanismo ben collaudato” e il cui dominus – in termini commerciali e amministrativi – del sistema fraudolento sarebbe Vincenzo Morabito.
Da quanto rilevato dalla Gdf, il gruppo avrebbe dissipato le merci e i beni aziendali e le relative disponibilità finanziarie con numerose operazioni bancarie (emissione di assegni, disposizione di bonifici dai conti corrente societari verso conti personali e cospicui prelevamenti in contanti) di valore sproporzionato rispetto alla consistenza patrimoniale della società, causandone così il dissesto e la successiva bancarotta.
I LEGAMI TRA MORABITO E STRANGI
L'attività investigativa avrebbe svelato anche dei frequenti contatti tra Morabito e Strangi, relativi a flussi finanziari giustificati da rapporti commerciali (che per gli inquirenti sarebbero apparentemente leciti) tra le società riconducibili alla loro gestione “occulta”.
Si sarebbe poi accertato l’esistenza di movimentazioni finanziarie da e verso un gruppo di sette società consortili ritenute “di comodo”, con sede legale nel veronese e riconducibili allo stesso Strangi, formalmente amministrate da soggetti di origine calabrese gravati da numerosi precedenti penali, e tutte dichiarate fallite.
Intercettati anche dei bonifici eseguiti verso una società maltese amministrata da Giusi Larosa, all’epoca dei fatti convivente di Morabito e titolare di cariche in cinque società.
Con questi trasferimenti, effettuati anche in maniera frazionata, verosimilmente per eludere la normativa antiriciclaggio ed ostacolarne la provenienza delittuosa, sarebbero stati “ripuliti” diversi milioni di euro, causando il dissesto e la successiva fraudolenta bancarotta delle società sopra citate.
IL SEQUESTRO PER 5 MILIONI
Le indagini di carattere economico/patrimoniale svolte dalle fiamme gialle reggine hanno permesso di ricostruite le acquisizioni patrimoniali dirette e indirette effettuate dagli indagati negli ultimi 22 anni, per tutto l’arco temporale intercorrente dal 1997 alla data odierna, accertando l’effettiva esistenza di una rilevante sproporzione tra il profilo reddituale e quello patrimoniale.
Per tale motivo, la Procura della Repubblica – Dda di Reggio Calabria, ha emesso nei confronti di Strangi, Rossini, Leonardo e della LaRosa, il sequestro di 5 imprese, quote di capitale di 4 società commerciali, 25 fabbricati, 2 terreni, 1 veicolo e disponibilità finanziarie, del valore complessivo stimato in circa euro 5 milioni.
LO “STORICO” DI MORABITO E STRANGI
La “caratura” criminale di Vincenzo Morabito e Girolamo Strangi, nonché la loro vicinanza alla criminalità organizzata “presente sia sul versante tirrenico reggino (cosche Bellocco - Piromalli - Rugolo), che nel centro cittadino (cosche De Stefano - Tegano)”, è emersa in diverse operazioni di polizia.
Nel dettaglio, Morabito, definito da un collaboratore di giustizia “uno dei più grandi truffaldini che io abbia conosciuto nella storia della terra”, è stato, da ultimo, coinvolto nell’operazione “Il Principe” condotta dalla Questura e dal Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Calabria per il delitto di estorsione aggravata dal metodo mafioso, ai danni della CO.BAR. SPA (ditta aggiudicataria dell'appalto pubblico per la ristrutturazione del Museo della Magna Grecia di Reggio Calabria), segnatamente “addebitando allo stesso di aver preso in consegna una somma di denaro pari a 15/20.000,00 euro circa, costituente la prima tranche dei pagamenti estorti alla CO.BAR. S.p.a. dalla cosca De Stefano”.
Su Strangi è invece emerso nell’ambito delle indagini svolte dall’allora Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Ferrara, sotto il coordinamento delle Procure della Repubblica di Ferrara e successivamente di Bologna in cui era risultato interessato – tra gli altri – “Massimo Ciancimino (figlio di Vito Ciancimino)” per evasione fiscale e reati quali l'omessa tenuta delle scritture contabili, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, falso, frode doganale, inizialmente aggravati dall’“agevolazione mafiosa”.