Blitz antimafia. I “colletti bianchi” della Stidda tra vecchi e nuovi business: “clienti” anche in Calabria

Calabria Cronaca

Una maxi operazione ha portato stamani all’arresto di una settantina di persone ed al sequestro di beni per la ragguardevole cifra di ben 35 milioni di euro.

Il blitz è scattato all’alba e contemporaneamente in più province d’Italia, su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Brescia, e dopo una lunga e complessa indagine, che gli investigatori hanno chiamato “Leonessa”, condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia di Stato.

Secondo gli inquirenti si sarebbe dunque riusciti ad accertare l’operatività di una cosca mafiosa di matrice stiddara, di origine siciliana, che avrebbe avuto il suo quartier generale proprio nel capoluogo lombardo, e dove avrebbe “pesantemente inquinato” diversi settori economici attraverso la commercializzazione di crediti d’imposta fittizi per decine di milioni di euro.

La Stidda, nella sua versione settentrionale “in giacca e cravatta”, pur mantenendo le “antiche” modalità mafiose nell’agire quotidiano, si sarebbe dimostrata capace di una vera e propria “metamorfosi evolutiva,” sostituendo ai reati tradizionali dei nuovi business, utilizzando come anello di congiunzione tra i mafiosi e gli imprenditori i “colletti bianchi”, che individuavano tra i loro clienti - disseminati principalmente tra Piemonte, Lombardia, Toscana, ma anche nel Lazio, così come in Calabria e Sicilia - quelli disponibili al risparmio facile.

L’indagine - che per il suo spessore ha visto il supporto del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e dello Scico della Guardia di Finanza - ha disvelato parallelamente anche numerosi reati tributari e fenomeni corruttivi.

LA “STELLA CADENTE” DI GELA

Parallelamente, un altro blitz della Polizia - denominato “Stella Cadente” - è scattato anche a Gela, in Sicilia, sede “storica” della Stidda, pericolosa organizzazione mafiosa che, negli ultimi anni, ha imperversato nella cittadina sicula, appropriandosi di parte del territorio con la tipica forza e violenza mafiosa, che da sempre l’ha caratterizzata.

A finire in carcere, così, sono stati tanto i capi quanto i gregari e i sodali che avrebbero il fiorente traffico di stupefacenti, infiltrato l’economia legale attraverso imprese di comodo, o attuando estorsioni a tappeto, specie con il metodo che prevede l’imposizione dei prodotti delle loro aziende.

Gli investigatori avrebbero scoperto anche diverse spedizioni punitive degli stiddari, tutte organizzate utilizzando armi o danneggiamenti seguiti da incendi, e dirette contro chiunque osasse contrapporsi al loro potere criminale, “con una potenzialità militare”, sostengono gli inquirenti, che spiegano come l’organizzazione potesse contare su ben “500 leoni”, ossia mezzo migliaio di uomini armati che avrebbero potuto scatenare l’ennesima guerra di mafia.

Le indagini avrebbero pertanto consentito di fotografare l’ala violenta del clan, ricostruendo numerose estorsioni a commercianti ed imprenditori riottosi o poco propensi a sottomettersi al loro volere, ma che - nonostante ciò - hanno trovato il coraggio di denunciare.

GLI ARRESTATI

L’operazione siciliana è stata eseguita dagli agenti dello Sco e della Squadra Mobile di Caltanissetta e del Commissariato di Gela, con l’iuto dei colleghi del Reparto Prevenzione Crimine e delle Unità cinofile di Palermo e Catania e delle Mobili di Catania, Siracusa, Chieti, L’Aquila, Brescia e Cosenza.

La polizia ha eseguito 35 ordinanze di custodia cautelare, di cui 28 in carcere e 7 agli arresti domiciliari a carico di soggetti che sono indagati a vario titolo per associazione mafiosa, estorsione, associazione per delinquere finalizzata al traffico e spaccio di stupefacenti, detenzione illegale di armi.

In carcere sono così finiti: Bruno Di Giacomo, inteso “Marlon Brando”, gelese di 44 anni; Giovanni Di Giacomo, gelese di 47 anni, già detenuto; Giuseppe Alessandro Antonuccio, gelese di anni 39 e già ai domiciliari; Giuseppe Antonuccio, inteso “Pallina”, gelese di 33 anni; Salvatore Antonuccio, inteso “orecchie di plastica”, gelese di 42 anni;

Mirjan Ajdini, inteso “Emiliano o Puci”, albanese di 32 anni, già ai domiciliari; Luigi D’Antoni, gelese di 54 anni; Vincenzo Di Giacomo, gelese di 52 anni, già detenuto in una casa di lavoro; Rocco Di Giacomo, gelese di 63 anni; Vincenzo Di Maggio, gelese di 30 anni; Giuseppe Giaquinta, gelese di 28 anni; Luciano Guzzardi, catanese di anni 55;

Emanuele LAURETTA, gelese di 35 anni, già detenuto; Emanuele Lauretta, gelese di 41 anni; Rosario Marchese, calatino da sempre vissuto a Gela, di 33 anni, già detenuto; Gaetano Marino, gelese di 35 anni; Giuseppe Nastasi, gelese di 35 anni; Nicola Palena, gelese di 37 anni, già detenuto; Gianluca Parisi, gelese di 36 anni;

Alessandro Emanuele Pennata, gelese di 36 anni; Paolo Franco Portelli, gelese di 20 anni; Andrea Romano, gelese di 25 anni; Filippo Scerra, gelese di 44 anni; Alessandro Scilio, gelese di 39 anni; Gaetano Simone, gelese di 48 anni; Massimiliano Tomaselli, inteso “Emiliano”, gelese di 38 anni; Giovanni Traina, palermitano di 44 anni trapiantato a Gela; Giuseppe Truculento, gelese di 51 anni;

Ai domiciliari, invece: Samuele Antonio Cammalleri, gelese di 32 anni; Giuseppe D’Antoni, gelese di 30 anni; Laura Cosca, gelese di 25 anni; Aleandro Famà, inteso Scarabeo, gelese di 23 anni; Benito Peritore, gelese di 43 anni, già detenuto; Calogero Daniele Infurna, gelese di 36 anni; Giuseppe Vella, palermitano trapiantato a Licata di 66 anni.

Il Gip ha anche disposto il sequestro preventivo di alcune aziende, il cui valore è ancora in fase di accertamento: si tratta di un’attività di Gela nell’ambito del commercio di saponi e detersivi ed ingrosso di altri prodotti nel settore alimentare; un’altra che opera nel commercio di saponi e detersivi ed ingrosso di altri prodotti non alimentari; ed una terza che si si occupa di intrattenimento all’interno di una nota discoteca di Gela.

I “500 LEONI” ARMATI

L’indagine mira a dimostrare l’attuale esistenza ed operatività a Gela della Stidda, associazione armata definita “di spiccata pericolosità sociale”.

Emblematiche in questo risulterebbero infatti le intercettazioni in cui Vincenzo Di Giacomo quando avrebbe affermato che qualora si fosse profilata l’ipotesi di fronteggiare il clan rivale di Cosa Nostra, la Stidda avrebbe potuto contare sui suoi “500 leoni” di cui accennavamo prima.

Le investigazioni sono partite nel 2014, dopo il ritorno in libertà dei fratelli Bruno e Giovanni Di Giacomo, dopo un lungo periodo di detenzione in cui, peraltro, le indagini farebbero emergere come sarebbero stati mantenuti in carcere dallo zio Rocco Di Giacomo.

Ritornati in libertà – sostengono gli inquirenti - i due riallacciavano le fila di una fitta rete di contatti con sodali, vecchi e nuovi, della stidda gelese, costituendo una doppia anima della consorteria, imprenditoriale e militare, funzionale allo sviluppo di attività criminali nei settori di operatività tipici delle associazioni mafiose che hanno come principale fine il controllo del territorio”.

I fratelli Bruno e Giovanni Di Giacomo sarebbero così riusciti ad imporre la loro costante presenza sul territorio gelese fino a penetrare stabilmente nel tessuto economico legale avvalendosi di imprese ritenute mafiose, intestate fittiziamente a dei prestanome, e che distribuivano prodotti per la ristorazione e alimentari, o che si occupavano di serate in discoteca o del settore immobiliare.

L’ATTIVITÀ ESTORSIVA “SERIALE”

La stidda, che si ritiene capeggiata da Bruno Di Giacomo, infatti, si sarebbe resa responsabile di una attività estorsiva “seriale” tramite l’imposizione dei prodotti per la ristorazione ed alimentari a numerosi commercianti gelesi, costretti ad acquistare la merce anche a prezzi maggiorati o, in altre occasioni, in quantità maggiori rispetto al loro volere, per il solo fatto che fossero commercializzati dal capo mafia.

Le indagini avrebbero, infatti, consentito di fotografare, con particolare evidenza, l’ala violenta del clan, ricostruendo diverse estorsioni ai danni di commercianti ed imprenditori, anche tramite attentati incendiari diretti ai riottosi o poco propensi a sottomettersi al loro volere.

Alcuni di questi stessi imprenditori hanno però trovato il coraggio di denunciare le estorsioni subite alla Polizia, grazie al sostegno del Presidente dell’Associazione Antiracket di Gela, Renzo Caponetti.

Altro settore economico d’interesse degli stiddari è stato quello della costruzione, ristrutturazione e compravendita immobiliare, dove la stidda vi si sarebbe inserita attraverso società di comodo, intestate a Alessandro Emanuele Pennata, e che si ipotizza siano state costituite per ripulire il danaro sporco.

L’IMPRENDITORE AUTISTA E AMBASCIATORE

Tra gli arrestati, Vincenzo Di Maggio sarebbe stato l’autista e l’ambasciatore del presunto boss Bruno Di Giacomo, diffondendo gli ordini di quest’ultimo agli altri sodali sul territorio.

Di Maggio avrebbe dunque goduto di fiducia incondizionata da parte dei Di Giacomo, Bruno e Giovanni, e di quello che è ritenuto lo “storico stiddaro”, Filippo Scerra, che grazie alle ambasciate che tramite lui veicolavano non avrebbero avuto la necessità di contattarsi ed incontrarsi quotidianamente, riducendo così il rischio di essere esposti ad indagini di Polizia.

Vincenzo Di Maggio, inoltre avrebbe fatto parte anche dell’ala imprenditoriale del clan, avendo assicurato il suo contributo nella gestione di attività economiche controllate dall’organizzazione, risultando preposto alla gestione della discoteca di Gela, considerata sotto il completo controllo degli stiddari.

Lo stesso, poi, non avrebbe disegnato di occuparsi anche del fiorente traffico di droga del gruppo, così come Alessandro Scilio e Gaetano Marino, che sin da subito sarebbero stati particolarmente attivi nel settore degli stupefacenti, anche prima della scarcerazione dei fratelli Di Giacomo che, comunque, e tornati in libertà, non avrebbero perso tempo a riprendere le redini del traffico di droga, che costituiva un’importantissima fonte di reddito per la consorteria, da riciclare in altre attività economiche apparentemente lecite.

LA “LEONESSA” DI BRESCIA

L’indagine parallela della Direzione Distrettuale Antimafia di Brescia, battezzata “Leonessa” e condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia - ha invece accertato l’operatività di una cosca mafiosa di matrice stiddara, con il quartier generale nel capoluogo lombardo portando a eseguire 69 arresti, 15 accusati di associazione mafiosa; altrettanti di indebita compensazione; 18 per reati contro la Pubblica Amministrazione e 27 per emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

Sequestrati anche beni per 35 milioni di euro, ed eseguite un centinaio di perquisizioni, per un totale di circa 200 indagati.

La Stidda siciliana, insomma, nella sua versione “settentrionale” si sarebbe dimostrata capace di una vera e propria “metamorfosi evolutiva” sostituendo ai reati tradizionali i nuovi business.

L’organizzazione mafiosa, attraverso il supporto di “colletti bianchi”, ha permesso a una vasta platea di imprenditori di evadere il Fisco per diverse decine di milioni di euro, cedendo crediti fiscali inesistenti con effetti distorsivi sull’economia reale, ulteriormente condizionata dai reinvestimenti dei profitti illeciti conseguiti.

L’enorme redditività del business ha determinato anche dei momenti di tensione con la cosca operante in Sicilia, il cui traffico di droga è stato inizialmente finanziato proprio dai proventi della vendita dei crediti fittizi.

LA LEADERSHIP DEL TRIUNVIRATO

L’indagine ha, quindi, permesso di monitorare l’evolversi dei rapporti tra i due sodalizi che hanno, infine, siglato una vera e propria “pax mafiosa”, consapevoli, come affermato da uno degli indagati, che: “(…) la guerra non porta a niente (…) la pace porta a qualcosa”.

La leadership della cosca settentrionale è stata assunta da un triumvirato composto da personaggi ritenuti di elevata caratura criminale, che già in passato avevano ricoperto ruoli di vertice nella stidda gelese e nelle sue proiezioni lombarde.

Gli stiddari, mimetizzati nel nuovo ambiente operativo, avrebbero così messo a disposizione degli imprenditori del Nord i propri servizi illeciti che consistevano nella vendita di crediti fiscali inesistenti utilizzati per abbattere il debito tributario.

L’anello di congiunzione tra i mafiosi e gli imprenditori era rappresentato dai “colletti bianchi”, che individuavano tra i loro clienti (disseminati principalmente tra Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Calabria e Sicilia) quelli disponibili e che ora dovranno rispondere di indebita compensazione di tributi.

Nel breve arco temporale di un anno e mezzo, il gruppo sarebbe così riuscito a commercializzare crediti fiscali inesistenti per circa 20 milioni di euro, ceduti a imprenditori operanti tra i più svariati settori dell’economia.

LE “ANTICHE” MODALITÀ MAFIOSE

Pur mutando il business, gli stiddari hanno però mantenuto le “antiche” modalità mafiose nel loro quotidiano agire: pur “in giacca e cravatta”, sono rimasti fedeli ai comportamenti tipici della mafiosità, manifestando capacità di intimidazione nei confronti della concorrenza e di affiliati ritenuti inaffidabili, offrendo, in aggiunta ai crediti fittizi, protezione agli imprenditori che ne hanno fatto richiesta, estromettendo con violenza i partecipi delle società in cui avevano reinvestito i proventi illeciti.

Le investigazioni hanno, inoltre, permesso di ricostruire le attività di reimpiego e riciclaggio, attuate attraverso società operanti, ad esempio, nei settori della consulenza amministrativa, finanziaria e aziendale, della sponsorizzazione di eventi e del marketing sportivo, del noleggio di auto, barche ed aerei, del commercio all'ingrosso, di studi medici specialistici, della fabbricazione di apparecchiature per illuminazione e della gestione di bar.

Ecco, dunque, che le fonti di finanziamento illecito derivanti dai reati tributari sarebbero diventate lo strumento per radicarsi nell’economia reale, come una vera e propria “metastasi” criminale che inquina l’ordine e la sicurezza economico-finanziaria.

Ovviamente a scapito della parte sana dell’imprenditoria, costretta a soccombere a causa della “concorrenza sleale” della criminalità organizzata.

LE “DINAMICHE PATOLOGICHE”

L’indagine - oltre ai profili su scala nazionale di cui accennavamo - è stata anche una vera e propria lente d’ingrandimento sulla città di Brescia, consentendo di individuare quelle che gli inquirenti definiscono come delle “dinamiche patologiche”, focalizzandole e reprimendole.

Oltre a quello, mafioso, infatti, sono emersi anche altri due filoni investigativi. Uno riguardante il “tradizionale” settore delle fatture per operazioni inesistenti, per un ammontare complessivo di fatture false per 230 milioni di euro.

L’altro, afferente a varie condotte corruttive, dove gli imprenditori, elargendo mazzette o favori a pubblici funzionari avrebbero ottenuto significativi risparmi fiscali.

Dunque, ed in sintesi, l’indagine Leonessa ha permesso di denunciare circa 200 persone, ed emettere 75 misure cautelari restrittive. Emessi anche dei decreti di sequestro - attualmente in corso di esecuzione - per il recupero del “maltolto”.

(aggiornata alle 13:15)