‘Ndrangheta in Emilia. Prestanome e “cartiere” per schermare le aziende, sequestrato il patrimonio dei Muto
Cinque aziende nel settore degli autotrasporti ed immobiliare che solo nel 2017 hanno fatturato circa 3 milioni e mezzo di euro e dal patrimonio netto complessivo poco più di un milione; e poi una dozzina di immobili, tra cui due capannoni industriali dove hanno sede delle aziende di autotrasporti, tre abitazioni e due ettari e mezzo di terreno, tutti acquistati ad un prezzo totale di 3 milioni.
A questi si aggiungono più di un centinaio di mezzi del valore di un milione di euro: 92 veicoli, tra cui 28 trattori stradali; 43 semirimorchi; 5 autobus; 4 furgoni; 2 autocarri; 10 autovetture, tra le quali una Maserati e due Volkswagen; ed un motociclo. Infine una decina di rapporti bancari con saldi positivi per circa 100 mila euro.
È questo in sintesi il patrimonio - stimato in ben 9 milioni di euro - su cui stamani è calata la scure della Dda di Bologna che lo ha fatto sequestrare (tra Reggio Emilia, Parma, Mantova e Crotone) nell’ambito dell’operazione denominata Grimilde, a due fratelli imprenditori originari del crotonese, Antonio e Cesare Muto (QUI), che gli inquirenti considerano appartenenti entrambi alla ‘ndrangheta emiliana storicamente legata alla cosca dei Grande Aracri di Cutro.
Antonio Muto, in particolare, è stato condannato, in primo grado, nel corso dell’ormai noto processo “Aemilia” con l’accusa di associazione mafiosa, truffa ed estorsione (tutti reati dal 416 bis).
Proprio le indagini effettuate sia nell’ambito delle operazioni Aemilia (QUI) che Grimilde (QUI), avevano già dato origine a interventi repressivi di notevole portata nei confronti della ‘ndrangheta attiva nella ricca regione del centro Italia, che si ritiene sia capeggiata dai fratelli Sarcone, da Alfonso Diletto, Francesco Lamanna, Francesco e Salvatore Grande Aracri ed altri.
Interventi che - sfociati prima nelle due storiche sentenze Aemilia, pronunciate il 31 ottobre del 2018 (QUI), e quindi negli arresti dell’Operazione Grimilde effettuati a Brescello (Reggio Emilia) nel giugno scorso (QUI), dove a finire in manette fu anche Antonio Muto (48 anni) per fittizia intestazione di quote societarie – avrebbero confermato ulteriormente la presunta ingerenza della cosca locale nella gestione e controllo di attività imprenditoriali (formalmente intestate a prestanome) e nell’accumulo illecito di significativi patrimoni personali.
LA GESTIONE OCCULTA DI IMPRESE NAZIONALI
Dall’esito delle indagini patrimoniali svolte nei confronti degli interessati, e dalle risultanze emerse dai precedenti interventi, gli inquirenti si dicono certi di avere trovato delle conferme su una “gestione occulta” di imprese che operano in tutta Italia.
In particolare, analizzando oltre 700 rapporti bancari, si è arrivati a ricondurre ai Muto ogni processo decisionale interno alle società, per cui qualsiasi “ordine” relativo alle operazioni aziendali sarebbe stato “vagliato e gestito dai reali dominus, dietro lo schermo di compiacenti prestanome”.
Dopo appena due mesi da una interdittiva antimafia che li aveva colpiti nel 2013, gli imprenditore avrebbero costituito ed avviato una nuova società di trasporti e di viaggi turistici, la Cospar, intestandone le quote ad un presunto prestanome, Salvatore Nicola Pangalli, ingegnere di origini crotonesi.
Dagli accertamenti bancari si è però arrivati a ritenete che quest’ultimo avesse costituito l’azienda con risorse messegli a disposizione dalle società dei Muto, facendole transitare su dei conti di una società “cartiera”.
Infine, l’indagine di tipo economico-finanziaria avrebbe confermato i legami tra i fratelli Muto e gli altri imprenditori già condannati per aver fatto parte alla ‘ndrangheta emiliana, come Giuseppe Giglio ed i fratelli Vertinelli.
Le indagini che hanno portato al sequestro di oggi sono state coordinate da Beatrice Ronchi, della Procura Distrettuale Antimafia di Bologna. Il provvedimento è stato eseguito dal Ros, il Raggruppamento Operativo Speciale, e dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Modena.