Operazione Rasoterra: braccianti “gestiti” e divisi in base alle necessità dei caporali
Un vero e proprio sistema collaudato per lo sfruttamento dei migranti nelle aree agricole della Piana di Gioia Tauro, dove ogni anno - da settembre a marzo - giungono migliaia di soggetti appositamente “reclutati” per il lavoro nei campi.
Questo quanto emerso nel corso dell’Operazione Rasoterra (LEGGI), che ha portato oggi all’arresto di nove soggetti per gravi reati collegati allo sfruttamento dei braccianti.
Una indagine nata nel 2018, quando la Procura di Palmi fece luce su alcuni gravi episodi riportati da alcuni migranti residenti nella tendopoli di San Ferdinando, prima che questa venisse smantellata l’anno successivo.
I LUOGHI DI MIGRAZIONE LAVORATIVA
I controlli avrebbero così permesso di appurare “un contesto di assoluto rilievo criminale caratterizzato dal continuo verificarsi di condotte delittuose”, portate avanti da diversi imprenditori agricoli della Piana sparsi tra i comuni di Rosarno, Rizziconi e San Ferdinando.
Luoghi notoriamente oggetto di “migrazioni lavorative” per migliaia di braccianti, prevalentemente subsahariani, che alloggiano in luoghi di fortuna e, precedentemente, nella nota baraccopoli.
Le attività di reclutamento, assunzione, impiego sul campo e trasporto venivano dunque curate dai datori di lavoro, che si “dividevano” i lavoratori a basso costo approfittando del loro stato di bisogno.
Operazioni che erano coadiuvate da diversi “caporali” e “faccendieri”, che avevano il compito non solo di individuare nuovi soggetti da includere nella rete criminale, ma anche di controllarli e “gestirli”.
L’INFILTRAZIONE DELLA ‘NDRANGHETA
L’indagine ha portato al sequestro di una ditta individuale intestata a Raffaella Raso, che si occupa di coltivazioni di frutta ed ortaggi, e gestita direttamente dal padre Filippo.
Il cinquantaduenne, originario di Taurianova, è considerato un “soggetto di elevata caratura criminale riconducibile all’alleanza di ‘ndrangheta, un tempo esistente, dei Piromalli-Molè”.
Viene definito dunque “il dominus effettivo” dell’azienda, e ne avrebbe curato personalmente i contatti con i vari caporali e faccendieri imponendo loro ordini e direttive.
L’uomo è considerato a “capo” del sistema, essendo stati riscontrati, in corso di indagine, diversi episodi minatori dove Raso avrebbe minacciato e punito chi non eseguiva i suoi ordini, “avvalendosi della consapevolezza di essere particolarmente temuto” sostengono gli inquirenti.
Diversi i referenti “fidati” dell’imprenditore, come Domenico Careri, che con l’ausilio di Francesco Calogero si sarebbe occupato di individuare e trasportare i migranti sul territorio.
I mezzi per il trasporto sarebbero stati forniti da Giacomo Mamone, mentre i pagamenti sarebbero stati effettuati anche per mano del figlio, allora minorenne, Pasquale Raso.
GLI ARRESTI
Finiscono in carcere Filippo Raso, assieme a Ibrahim Ngom, quarantunenne originario del Senegal e noto come “Rasta”, e Kader Karfo, quarantaduenne originario della Costa d’Avorio noto come “Cafù”.
Questi due ultimi soggetti avrebbero svolto il ruolo di caporali, controllando sul posto i lavoratori e verificando le loro azioni, per poi effettuare il pagamento a fine giornata. Sempre loro avrebbero gestito il trasporto dei vari migranti nei campi, tramite l’ausilio di un furgone.
Ai domiciliari, invece, Pasquale Raso, ventenne di Rizziconi, Mario Montarello, cinquantaseienne di Rizziconi, Giacomo Mamone, trentacinquenne di Cinquefrondi, Francesco Calogero, sessantaseienne di Rizziconi, Domenico Careri, sessantacinquenne di Rosarno, e Vincenzo Straputicari, quarantunenne di Rizziconi.
Quest'ultimo si sarebbe avvalso della collaborazione con “Rasta” per impiegare nei suoi terreni diversi braccianti a basso costo, sfruttando dunque il sistema a suo vantaggio.