Colpo ai “professionisti” della droga: i Nasone-Gaietti e il controllo del territorio, 19 arresti

Reggio Calabria Cronaca

Intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche che hanno offerto uno spaccato definito “di rara chiarezza” sulla gestione del narcotraffico da parte della cosca reggina dei Nasone-Gaietti.

Parliamo di un clan che per come si era già andato affermando dopo diversi procedimenti penali istruiti nel corso degli anni, ed anche con le ultime investigazioni, è considerato una struttura mafiosa pienamente organica alla ‘ndrangheta unitaria attiva sul territorio di Scilla e nel suo comprensorio.

Un gruppo capace di produrre da sé marjuana ma che può contare su canali per approvvigionarsi anche di cocaina nelle aree urbane di Scilla, Bagnara e Villa San Giovanni grazie al ruolo di uno degli indagati, Carmelo Cimarosa.

Il clan, poi, aveva a disposizione anche armi, pure potenti, come un kalashnikov di fabbricazione russa, da usare anche in agguati: come quello avvenuto ai danni di un cittadino ignaro ed organizzato solo per dimostrare il potere della cosca sul territorio; o per cacciare dalla Calabria un pusher reo di aver ritardato il pagamento dello stupefacente.

C’è tutto questo, e non solo, nei meandri dell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che stamani ha portato all’operazione “Lampetra” (QUI) e, quindi, all’arresto di 19 persone, delle quali quindici finite tra le sbarre e quattro ai domiciliari.

Obiettivo degli inquirenti, come dicevamo, il clan Nasone-Gaietti e, per così dire, il suo “core business”.

Affari che, oltre alla droga, sarebbero stati indirizzati anche al controllo dei alcuni settori particolarmente delicati dell’economia scillese: basti pensare all’interesse dimostrato per le assegnazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari.

Tutte fasi criminali che, sempre secondo gli investigatori, sarebbero state controllate da Angelo Carina, ritenuto a capo del sodalizio.

LA SIMBIOSI DELINQUENZIALE

Carina sarebbe stato quindi “l’imprescindibile punto di riferimento” per il nipote, Carmelo Cimarosa, considerato affiliato al clan e responsabile dell’approvvigionamento e della distribuzione dello stupefacente destinato allo spaccio al dettaglio.

Inoltre, sarebbe stato in costante contatto e in permanente simbiosi delinquenziale”, affermano ancora gli inquirenti, tanto con il nipote quanto con gli altri appartenenti alla cosca ed al gruppo responsabile dello spaccio.

Secondo l’accusa, insomma, una sorta di “mentore criminale” al quale, primo fra tutti Cimarosa ed i più giovani affiliati si sarebbero rivolti per ricevere indicazioni operative ed ottenere l’autorizzazione al compimento delle azioni delittuose più rilevanti, essendo stata documentata anche la disponibilità di armi ed “una particolare propensione a portare azioni violente sul territorio”.

Carina, ancora, non avrebbe solo partecipato alle decisioni più rilevanti sulla gestione del narcotraffico ma - ovviamente - avrebbe partecipato anche alla spartizione dei relativi guadagni.

Le intercettazioni, incardinate sulla figura del nipote, Carmelo Cimarosa, dimostrerebbero infatti la centralità della sua figura nella gestione di un vasto traffico di stupefacente, il cui flusso di rifornimento sarebbe stato garantito da una stretta cointeressenza con altre tre persone finite nell’inchiesta, Antonio Alvaro, Francesco Laurendi e Enzo Violi.

La distribuzione al dettaglio dello draga, poi, era curata da un collettivo di spacciatori a carico dei quali sono state censite 52 cessioni, a riprova dell’ingente volume di traffico di stupefacente gestito dal gruppo.

LA BASE NELLA VILLA COMUNALE

Nel corso delle indagini, grazie anche alle attività di osservazione, i carabinieri hanno scoperto quello che definiscono come un “asfissiante controllo del territorio di Scilla” da parte del sodalizio mafioso; un controllo ottenuto grazie all’attività di spaccio che aveva trovato nella villa comunale la base operativa, sottraendola alla disponibilità di cittadini e famiglie.

I membri del clan si sarebbero infatti attrezzati per gestire in modo professionale il business degli stupefacenti, rivolgendosi a fornitori in grado di assicurare canali di approvvigionamento stabili e privilegiati: tra questi spicca appunto Antonio Alvaro.

Gli investigatori sostengono, ancora, che Cimarosa fosse principalmente attivo nel mercato della cocaina mentre quello della marijuana sarebbe stato delegato ai fratelli, Silvio Emanuele e Francesco Cimarosa.

Le indagini fornirebbero inoltre un quadro completo e ben definito” della squadra di pusher che, capitanati da Carmelo Cimarosa, si sono rivelati in grado di realizzare una capillare rete di spaccio a Scilla e Bagnara Calabra.

Del tutto veniva tenuta anche una seppur rudimentale contabilità che annotava i rispettivi rapporti di dare e avere, così come ci si scambiava consigli ed ammonimenti per evitare il rischio di essere intercettati.

Inoltre ci si dedicava alla coltivazione della canapa indiana, per assicurare all’organizzazione stupefacente “fatto in casa e dunque incrementare i guadagni comuni.

Il gruppo, inoltre, progettava di espandersi in altre regioni del nord Italia, un modo evidentemene per aumentare il giro d’affare, fidelizzando un altissimo numero di clienti tra i comuni di Scilla e Bagnara Calabra: circa 400 secondo le stime dello stesso Cimarosa.

IL GALATEO DELLA ‘NDRANGHETA

La presunta associazione creatasi intorno a Cimarosa, poi, non avrebbe mancato di confrontarsi - a volte con una ruvida contrapposizione - alle altre attive sul territorio, “attraverso una rivalità che si traduceva nel desiderio di acquisire fette di mercato sempre più ampie a discapito dei concorrenti”.

Questi, per imporre le proprie regole e per suscitare una diffusa intimidazione sul territorio, si sarebbe avvalso oltre che della fama della cosca di appartenenza, anche di un ricorso generalizzato alla violenza, di cui non avrebbe mancato “di gloriarsi con l’interlocutore di turno”.

Cimarosa avrebbe fatto presente di non avere remore a contrapporsi a chicchessia nell’area di Scilla: anche chi poteva godere della vicinanza con esponenti di altre frange della criminalità organizzata locale non sarebbe rimasto immune dai suoi raid punitivi.

Una violenza che sarebbe stata esercitata nei limiti in cui era consentita dal “galateo” della ‘ndrangheta ed in modo da non incorrere nella perdita del “rispetto della famiglia”.

L’indagine, inoltre, è stata decisiva per il censimento della destinazione finale di un ingente carico di cocaina nel porto di Gioia Tauro.

Grazie alle intercettazioni, infatti, s’è scoperto - a partire da quella data ed acutizzata nel mese di dicembre del 2019 - una grave difficoltà di rifornimento da parte dei fornitori di coca.

Le investigazioni, infine, hanno fotografato anche l’allarmante propensione di Cimarosa e dei suoi “accoliti” a fare ricorso alle armi per risolvere quelle problematiche che, di volta in volta, si frapponevano al raggiungimento dei loro obiettivi; un uso che dimostrerebbe l’elevatissima pericolosità degli indagati delineando il contesto criminale in cui gli stessi da tempo avrebbero operato.

IL BLITZ è stata eseguito dai carabinieri reggini tra Scilla, Sinopoli, Sant’Eufemia d’Aspromonte e nelle province di Messina, Milano, Roma e Terni.

I quattordici soggetti finiti in carcere sono stati associati alle Case Circondariali di Reggio Calabria, Messina, Catania, Salerno e Milano.

Le investigazioni, condotte dal Reparto Operativo del Comando Provinciale con il concorso della Compagnia di Villa San Giovanni sono state dirette dai Sostituti della Dda Walter Ignazitto e Paola D’Ambrosio.