Ciancio: bisogna tornare ad investire sull’Università
Riceviamo e pubblichiamo una nota a firma di Sebastian Ciancio, Presidente della FUCI
“I tagli, troppo spesso lineari di questi anni, hanno ridotto molti atenei italiani allo stremo. L’entità di questi tagli non ha precedenti storici ma colpire l’Università ed affondare la Ricerca ha significato tradire le speranze e le aspettative delle nuove generazioni. Ha significato quindi bloccare lo sviluppo del nostro Paese con pesanti conseguenze sulla nostra capacità competitiva e sulla qualità della formazione del sistema accademico. Università e Ricerca non possono fare a meno delle migliori intelligenze delle nuove generazioni, quelle che stiamo “spedendo” all’estero in decine di migliaia ogni anno. I nuovi meccanismi di reclutamento si sono rivelati fallimentari. Mai l’università era apparsa tanto chiusa ai giovani brillanti, mai la carriera universitaria tanto incerta anche per i più meritevoli tra i docenti in servizio. Mi piacerebbe che Parlamento e Governo prossimi mettessero in cima alla loro agenda : Scuola, Università e Ricerca; mostrassero attenzione e rispetto per le persone appassionate e competenti che vi lavorano, per i giovani di oggi e di domani. La legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010 di Riforma del sistema universitario, alla quale non si può non riconoscere una genuina volontà riformatrice, vanta dei pregi non indifferenti ma si è concentrata solo su alcuni aspetti amministrativi come la governance. Sull’offerta formativa invece non ha inciso efficacemente. Abbiamo registrato un innalzamento graduale del costo degli studi inversamente proporzionale alla qualità dell’insegnamento e dei servizi. A ciò si aggiunge il sostanziale blocco dell’ingresso di giovani studiosi nel mondo accademico con una conseguente affermazione di un apparato fondato sulla precarizzazione della Ricerca. Il tutto sommato alla forte diminuzione del numero di studenti che potranno ottenere una borsa di studio e alla consistente contrazione che subirà l’importo. L’Università pubblica italiana oggi non occupa posizioni di vertice nelle classifiche internazionali ma al contrario è relegata in posizioni di imbarazzante retroguardia. Ciò dovrebbe indurre la politica ad identificare i punti di debolezza e a correggerli, appurato il fondamentale ruolo dell’Università nella vita sociale del Paese. Una più efficace e fattiva internazionalizzazione degli atenei, ad esempio, avvantaggerebbe gli studenti universitari, formati per essere cittadini del mondo. Sul piano professionale incrementerebbe ulteriore stimolo per i docenti e per le istituzioni scolastiche per perseguire obiettivi di alto valore pedagogico ed interdisciplinare. Nuova linfa per la Pubblica Istruzione provocherebbe un cambiamento quasi radicale ma certamente rigenerante: progetti Erasmus più ricchi, procedure più trasparenti e consistenti, meno burocrazia, tempi più regolari, nuovi incentivi. Inoltre arroccare il sistema universitario dietro sbarramenti e test d’ingresso peggiora la situazione. Forse puntando sulla qualità dell’Università, intesa come complessità fisiologica del percorso accademico, la selezione verrebbe naturale, e quindi lo Stato potrebbe non farsi carico delle carenze degli studenti che escono dalla scuola in condizioni non soddisfacenti. L’Italia necessita di una proposta unitaria, di un’impalcatura costante che nel tempo sostenga le esigenze di studenti, docenti e istituzioni. La percezione, come utente dei servizi della pubblica istruzione e dell’università statale, è che i governi operino con miopia : sembrano considerare la scuola come un’entità distinta dall’Università. Se si responsabilizzasse la scuola, invece, l’università camperebbe di rendita. Se la scuola non è in grado di formare e non si sente l’unico strumento in grado di preparare allo studio accademico, non potrà che permanere in uno stato di crisi durevole. A partire dal 2001, si è colorata sempre più di ardua incisività l’odissea dei test di ingresso. Questo stratagemma, dati alla mano, non è stato in grado né di limitare il numero di studenti fuori corso né di garantire agli universitari di restare in regola con i tempi della laurea. E’ dimostrato che il numero chiuso non argina le fisiologiche patologie dei fuori corso, degli abbandoni o dei neolaureati disoccupati, anzi, i dati confermano un incremento dei fenomeni. Certamente non per il prestigio accademico, per l’elevata preparazione degli studenti universitari o le virtuose qualifiche dei docenti, visto che il meccanismo che blocca (pre-clude) l’accesso agli atenei si basa su domande di logica, cultura generale che spesso non hanno nulla a che vedere con le materie oggetto della Facoltà prescelta. Un esempio su tutti i molteplici quesiti contenuti nelle prove di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia riguardanti musica, cinema o sport. Oppure ai test d’ingresso di Lettere di qualche anno fa erano richiesti i nomi delle due veline di Striscia la Notizia. Si potrebbe proseguire per ore e forse pubblicare una raccolta comica sui test di accesso. Dulcis in fundo, dal recente protocollo del Miur (n. 3188 - 14/02/2013) che calendarizza le date dei test per le facoltà a numero chiuso, si evince che i test, per l’anno 2013-2014, inizieranno il ventitre luglio (Medicina e Odontoiatria) e si concluderanno il quattro settembre (Professioni sanitarie). Nel 2014 i test di accesso all'Università saranno addirittura anticipati al mese di aprile. Questa scelta rappresenta un ulteriore impedimento per migliaia di giovani che, dopo le scuole superiori, desiderano coronare il proprio percorso di studi. Una scelta che costringerà gli studenti ad una dura lotta contro il tempo. Un sistema, innanzitutto, non meritocratico in quanto gli studenti non avranno a disposizione lo stesso numero di giorni per prepararsi al test perché impegnati, almeno fino alla prima metà di luglio, a sostenere gli esami di maturità. Ma la vera tragedia è che lo studente per sostenere un test di ingresso, deve iscriversi alla prova entro un termine indicato nell’apposito bando con il termine che oscilla da facoltà a facoltà. Questo per sottolineare che il diritto allo studio è viziato ancora prima nella forma che nella sostanza. L’Università è chiamata, oggi più che mai, a riscoprire un nuovo umanesimo in cui la molteplicità dei saperi e dei linguaggi siano in grado di integrarsi. La vera produzione consiste nello sviluppo armonioso di tutte le capacità dell’uomo e all’adempimento della sua vocazione personale. Per questo motivo ogni ateneo dovrebbe rappresentare per eccellenza il luogo di formazione al bene comune, di incontro tra docenti e studenti, di risposta alle sfide e alle prospettive lavorative, la “casa” dove perfezionare il ruolo preminente dell’educazione familiare ed una significativa democratizzazione della vita sociale e culturale. Gli anni universitari rappresentano un periodo di relazioni forti, di presa di coscienza di sé e della realtà che ci circonda, un tempo privilegiato per un passaggio ad una vita più responsabile. Ecco perché credo che la società civile debba scommettere sull’Università come luogo di crescita intellettuale e morale per formare i cittadini del domani ed assicurare un futuro migliore al Paese. Un Paese che non ama la sua Università non ha speranze, perché non ama il suo presente, perché non ama il suo futuro.”