Cgil: i volontari di Ravenna al Campo della Legalità di Riace
“Il bisogno di non dimenticare attraverso l’uso della parola. Una parola che sa far riflettere e che delinea, come in un fumetto, le sagome e i volti di personaggi che hanno fatto la Storia e di quella parte di gente comune che combatte per ottenere giustizia in un territorio dove domina la ‘ndrangheta. Così, - si legge in un comunicato dello Spi Cgil Rc-Locri e Arci Comitato territoriale di reggio Calabria - i giovani e i volontari dello Spi Cgil di Ravenna, partecipanti al Campo della Legalità di Riace (Laboratorio “Diritti, legalità e immigrazione”), hanno potuto immaginare le avventure di una piccola fanciulla che, durante la seconda guerra mondiale, nel nord Italia, aiuta, nella sua iniziale inconsapevolezza di bambina di dieci anni, i partigiani. Sta al fianco della Resistenza. Il senso della memoria. Questa, l’importanza del racconto di Giuseppina Murdaca: ragazzina coraggiosa e sindacalista convinta che ha visto, nel corso della sua vita, la nascita e la fine di un regime; le lotte di classe; il sorgere e il morire dei grandi partiti politici; l’affermazione dei diritti delle donne e di quelli universali.
Un netto no all’oblio. Ecco qual è il messaggio che Giuseppina ha lanciato durante l’incontro con i campisti e con gli organizzatori dell’iniziativa, denunciandone il valore fondamentale. Un filo conduttore comune che è, successivamente, risuonato nelle parole di Mario Congiusta. Familiare di una delle tante vittime innocenti di ‘ndrangheta: da anni combatte perché venga fatta giustizia, perché la memoria di suo figlio non venga infangata. Lotta per la legalità e l’affermazione di un diritto. Cerca la verità ed è diventato un combattente. “È la rabbia e l’indignazione – ha spiegato – che non ci fa arrendere dinanzi alle difficoltà: da una parte, l’indifferenza della gente; dall’altra, gli ostacoli legislativi e burocratici che, quotidianemente, devo superare”.
Per non dimenticare, è necessario raccontare. È necessario fare luce su episodi che restano, spesso, in ombra. E, per farlo, bisogna usare le parole. Scrivere, esprimersi con aggettivi, sostantivi, termini corretti e precisi. In questo ambito, un ruolo-chiave viene svolto dal comunicatore: colui il quale possiede gli strumenti adatti. Il mondo dell’informazione acquista, quindi, un aspetto in più. Diventa uno sguardo critico e costruttivo, innovativo. Archivio stop ‘ndrangheta lo fa dal 2008, da quando il progetto ha preso forma.
I suoi collaboratori e i giornalisti che lo curano hanno, infatti, una doppia missione: creare una rete di informazione anti ‘ndrangheta che sia fruibile a più pubblici e che serva per non dimenticare. Per collegare un volto a un nome. Una vittima al dolore reale e concreto di una famiglia. Ma non solo. Archivio stop ‘ndrangheta punta anche a parlare della criminalità più potente in Italia, a far conoscere la cultura e la mentalità mafiosa che non è solo in Calabria. “Per spiegare che la ‘ndrangheta – ha sottolineato Francesca Chirico (capo-redattrice di Archivio stop ‘ndrangheta) – non è questione di pastori, arroccati sulle montagne dell’Aspromonte; ma è quella criminalità organizzata che possiede, detiene e controlla attività economiche in nord Italia e in nord Europa (pensate ai fatti di Duisburg); che fa uccidere in pieno centro a Milano Lea Garofalo, vittima di lupara bianca”.
L’archivio denuncia, racconta, non solo le brutture della ‘ndrangheta, il suo sistema violento e aggressivo; ma soprattutto, mette in luce il valore delle testimonianze dei familiari delle vittime. Le loro esperienze, raccontate con rispetto e con profondo dolore, risuonano come una minaccia nei confronti del sistema ‘ndrangheta: puntano a squarciare un velo su una realtà, troppo spesso, nascosta o che si vuole nascondere. Il senso della memoria. Una memoria ritrovata e l’importanza di conoscere, di sapere. Serve per avere le informazioni necessarie per leggere con occhi diversi e più critici ciò che ci circonda. La realtà che esiste anche laddove, a volte, sembra scomparire.”