La terra dei fuochi in Calabria
di Maria Carmela Lanzetta*
La diffusione e la frequenza di atti criminali intimidatori in Calabria ha raggiunto livelli anche di impunità inaccettabili. Le forze dell’ordine sono pronte a compiere più del loro dovere per individuare i responsabili, ma sappiamo tutti che questo non basta.
Ancora, nonostante gli incontri e i tavoli tematici, probabilmente mancano quelle iniziative forti ed efficaci di natura amministrativa e legislativa che consentano di individuare e porre in essere gli strumenti per spezzare la dinamica di questi atti intimidatori. La riprova sta nel fatto che, nonostante le giuste e doverose iniziative di solidarietà e atti intrapresi, le azioni criminali continuano senza sosta anche con atteggiamenti inquietanti nei confronti dei famigliari del procuratore Nicola Gratteri.
La ’ndrangheta è una struttura complessa, un insieme variegato di elementi che si rinviano e s’intrecciano: un «fatto sociale totale», che tutto contagia, inquina e contamina. Una sorta di «catastrofe» naturale e storica che devasta la Calabria e i tanti luoghi del centro-nord dove si è ramificata.
E questa metastasi ha avuto un inizio tanti anni fa con il famigerato “soggiorno obbligato”, che ha consentito ai mafiosi di inserirsi nell’ambiente, di conoscere e segnalare anche chi poteva essere soggetto da sequestro di persona, com’è successo per tanti anni e come ben sappiamo.
Raccontare il male non significa però creare una linea netta di demarcazione tra noi, i buoni, e loro, i cattivi. Raccontare il male significa sforzarsi di capire quanto di quel male ci appartiene. Significa raccontare perché lo Stato non ha vinto questa guerra contro criminalità, pur vincendo moltissime battaglie. E se ancora non ha vinto è perché finora ha sempre perseguito logiche emergenziali, non riuscendo, al contempo, essere un’alternativa definitiva credibile.
E’ vero, non sempre dietro atti intimidatori c’è la mano della ndrangheta, ma a mio avviso e non solo, queste distinzioni lasciano il tempo che trovano. Se vogliamo uscire da questa spirale perversa dobbiamo convenire che vanno considerati come atti mafiosi, che provocano instabilità, paura, sfiducia e fuga tra i cittadini e, quindi, aprono spazi considerevoli alle attività mafiose vere e proprie.
Il giudice Gratteri, durante una audizione in commissione antimafia, ha pronunciato queste parole: “La mafia esiste perché ha il consenso popolare. Altrimenti dovremmo chiamarla criminalità organizzata, criminalità comune o gangsterismo, cose diverse e facilmente abbattibili. Le mafie esistono perché si nutrono del consenso popolare e non sono un corpo estraneo alla società. Vivono all’interno della società e si evolvono man mano che ci evolviamo noi. Non stanno ferme. La ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi”.
Il “consenso popolare” di cui ancora gode la ‘ndrangheta va soprattutto, a mio avviso, riferito a chi fa dell’illegalità diffusa una pratica quotidiana, e su questi illegalità diffusa la ‘ndrangheta sa di trovare già il terreno fertile per mettere in atto le sue azioni criminali con più facilità, con più “normalità”.
“Non mi riferisco ai complici diretti dei loro crimini - sottolinea Don Luigi Ciotti - ma, più generalmente all’individualismo insofferente delle regole che, pur non rientrando nella fattispecie dei reati mafiosi, ne costituiscono l’habitat ideale, lo spazio in cui le mafie allargano il loro già immenso potere. Non è un paradosso allora affermare che la forza delle mafie sta soprattutto fuori dalle mafie”.
La lotta alla illegalità diffusa è una lotta che deve partire da elementi fondanti: la politica come servizio al cittadino e non come dinamica di potere personale; tutti i cittadini devono essere Fedeli alla Repubblica, perché da questa fedeltà discendono comportamenti coerenti con i valori e i principi Costituzionali per significare un modo e uno stile di essere Cittadini.
Ma affinché si verifichi tutto questo è necessario che i Cittadini vedano uno Stato partecipe con atteggiamenti, proposte e soluzioni conseguenti agli attestati di solidarietà che oramai si susseguono ogni giorno in modo ossessionante: non si fa in tempo a leggerne o a scriverne uno che bisogna subito scriverne o leggerne un altro.
Diciamo la verità: sono iniziative importanti che assicurano a chi è stato vittima di atti intimidatori di non essere solo, ma, alla lunga, diventano uno stereotipo, quasi un copia e incolla che li priva di qualsiasi valore; e questo i criminali lo sanno, perché ad ogni atto solidale è sempre seguito un atto intimidatorio.
Per essere obiettivi, la presenza dello Stato, in questi ultimi anni, soprattutto dal delitto Fortugno in poi, è stata più visibile e incisiva, partendo già dall’arrivo del prefetto Luigi De Sena. Io stessa da Sindaco ho avuto modo di confrontarmi e di avere un’ampia collaborazione con il ministero degli interni, il ministro Cancellieri e con il viceministro Bubbico, la cui presenza in Calabria è ormai costante. Ma a quanto sembra questo non basta perché, probabilmente, siamo anche noi che non facciamo abbastanza, che dobbiamo ancora trovare la chiave per cominciare a capire dove dobbiamo agire di più e in che modo incidere per l’abbattimento dell’illegalità diffusa e della corruzione privata e pubblica.
A mio avviso, penso ci siano soprattutto due strade da seguire. La prima la cito dalla mia esperienza da Ministro quando avevo iniziato a realizzare un protocollo d’intesa con il Comune di Casal di Principe, coinvolgendo anche il Ministero della PI, per consentire ai nuovi amministratori di poter usufruire dell’aiuto dello Stato per quanto riguarda il dare man forte agli Uffici del Comune che si trovavano in difficoltà per vari motivi, e non solo di tipo criminale. È stata un’iniziativa derivata dalle difficoltà in cui io stessa mi sono trovata da Sindaco e, del resto, è noto a tutti che la Svimez ha sottolineato proprio questo aspetto, nel momento in cui ha rilevato che in questo ambito servono interventi di riforma della PA più forti per il Sud, per colmare i divari nei diritti di cittadinanza.
La seconda è quella che intende seguire il presidente della Commissione antindrangheta della Regione Calabria, Arturo Bova, per fare in modo che i Cittadini calabresi possano convincersi che la lotta alla ‘ndrangheta deve partire dal NOI, naturalmente con l’appoggio dello Stato. Ecco, probabilmente io penso che l’intimidazione subita sia dovuta anche a questo, e cioè al fatto che la criminalità organizzata possa oggi vedere nella commissione antindrangheta un effettivo baluardo Culturale e di sensibilizzazione contro la loro attività di condizionamento criminale della società civile. Cominciando soprattutto dalle scuole, così come sta già facendo il presidente Bova incontrando centinaia di studenti, perché la scuola è un “modello culturale alternativo alla mentalità mafiosa”.
Per rendere ancora più attivi questi incontri sarebbe necessario che le scuole inserissero, nell’ambito della loro autonomia, anche “Lezioni di Legalità”, ma non come progetti una tantum, ma come seminari di almeno tre mesi, in modo tale da coinvolgere gli stessi studenti in modo attivo, facendoli cioè interagire con i cittadini della loro città come portatori sani di Legalità contro la 'ndrangheta, l’illegalità diffusa e la corruzione.
“Se la politica s’impegna a fare squadra con i pezzi della società che agiscono dal basso per il riscatto della Calabria - ha dichiarato il presidente Bova in una intervista - la lotta alla criminalità sarà pià facile e più efficace. Perché se è vero che siamo terra di ‘ndrangheta, è anche vero che in Calabria agisce l’associazionismo antindrangheta con tantissime iniziative che spesso, però, vengono svolte in ordine sparso. Ecco, uno dei compiti che mi sono dato è quello di dare corpo a queste associazioni riunendole attorno alla commissione che presiedo, in modo tale che la loro azione culturale e di sensibilizzazione sia più compatta e più dirompente contro la mentalità mafiosa”.
* Già sindaco di Monasterace (Reggio Calabria), ex Ministro per gli affari regionali e le autonomie