Face 2016: artisti a confronto tra nobili materiali e note travolgenti
Tra performance, musica e arte continua il Facefestival ad Arghillà. In una delle celle che un tempo fu deposito d'artiglieria e dimora per soldati posti al controllo dello stretto, troviamo oggetti che, dismesso il ciclo di vita per cui erano stati realizzati, tornano a vivere grazie all'intervento di mani competenti, vestendo così un nuovo e rinnovato abito.
L'artefice di queste creazioni o RICreazioni è Riccardo Melito, laureato in Architettura all'Università di Valle Giulia di Roma e specializzato in interior design. Opere d'arte, oggetti di design, decori per interni, eccentrici e fantasiosi, robusti ed esotici, solidamente ancorati a terra da materiali nobili, caldi, corposi come il legno o sospesi per aria, privi di gravità, per l'uso di carte, fili di ferro e giochi d'ombra, i lavori di Melito, seppur frutto di un sapiente processo di contaminazione, si contraddistinguono per una forte identità.
“Sono attratto dagli oggetti –spiega - alle volte li colleziono, in alcuni di essi ne vedo il potenziale ed anche se banali o quotidiani li immagino fin da subito con un colore diverso e con una diversa funzione”. Ritornati in vita, questi oggetti hanno perso quindi la loro funzione originaria acquisendone un'altra, e “anche se alle volte il risultato finale è molto eccentrico all'interno dell'ambiente credo riescano ad armonizzarsi con il tutto che li circonda e ritrovare così una loro collocazione nel mondo”. Scarto e riuso sono le parole chiave di una pratica che mette insieme accanto allo studio dei materiali e delle forme, anche il recupero dell'aspetto manuale e artigianale.
“Gli oggetti li scelgo per un'intuizione ma non c'è una ricerca legata al territorio, li trovo, me li regalano, li recupero, poi magari ne ho degli altri, come degli strumenti tradizionali di mestieri ormai scomparsi, ma quelli fanno parte della mia collezione e difficilmente me ne staccherei”. Studia a Roma, ma ritorna in Calabria, sua terra natale, “è stata una scelta difficile e continua ad esserlo quella tra partire, restare, andare. Io sto bene qui, amo il luogo, ma ci sono oggettivamente delle difficoltà complesse da superare. Il FACE è un luogo di amicizia e in cui si sta bene, ma non ci sono molte realtà che ti permettono di crescere e soprattutto di dialogare”.
E viene in mente guardando il panorama che si staglia davanti ai nostri occhi che è proprio vero, ci sono luoghi belli da morire come scriveva La Capria, grande cantore del sud. Per lui Napoli era quella città che “ti ferisce a morte e ti addormenta” per il modo di vivere dei suoi abitanti, ma lui quella città la amava. E il bello da morire è qualcosa di talmente coinvolgente, sconvolgente, tumultuoso ed emozionante che quando lo senti, per sopravvivere, non rimane altro che imbracciare uno scudo e proteggersi. E la nostra terra è un po' così, immersa in orizzonti mozzafiato racconta di tempi passati e incontaminati, di mani di donne instancabili, materne, candide ed accoglienti, e non può non ammaliarti il suo canto come suggerisce la performance dell'artista siciliana, Tamara Marino. Alle 22 una giovane donna di bianco vestita entra nell'anfiteatro e si siede al centro della scena. Davanti a lei un tavolo altrettanto bianco su cui si trovano un carillon, un metronomo, un foglio e una matita. Inizia a disegnare e traccia sulla carta lo skyline dell'intero fortino e poi con un perforatore buca sulla linea di confine che separa l'interno dall'esterno dell'architettura.
Il foglio viene dunque inserito nella boîtes à musique e girando la manovella un suono si ode. Sono note d'infanzia e di gioco, di spensieratezza e dolcezza insieme, ma a non farci precipitare nel vortice del ricordo c'è la luce improvvisa che investe il forte. Tamara ha infatti lavorato con Kernel per quest'ultima parte della performance, così che il suono sprigionato dal carillon attiva i led disposti lungo la facciata ritmandone il senso della luce.
“Ho studiato in Toscana, e sono ritornata in Sicilia stabilmente quest'anno, la mia vocazione sarebbe la scultura, ma amo interagire con diversi mezzi, dal disegno all'installazione, e l'aspetto performativo mi attrae molto per la sua immediatezza e restituzione del sensibile. Sono molto precisa e attenta nel controllo del mio lavoro quando si tratta appunto di altri linguaggi che comunque sento miei, ma la performance per quanto sia studiata e pensata lascia sempre alla casualità il giusto margine per entrare e sperimentare”.
Così dice Tamara che del femminino sentire e della componente manuale ha fatto il centro della sua ricerca. “Sono donna, è il genere a cui appartengo e mi piace esplorarne tutte le possibilità, anche se legate ad aspetti più materni, dolci, introspettivi”. Le note si diffondono così per uno spazio che un tempo fu corazza e fortezza maschile, luogo di armi e guerra, e ci ricordano che l'arte può cambiare la prospettiva con la quale leggere il nostro orizzonte, per quanto bello da morire.