Tradizione evoluzione, binomio vincente. Si chiude il Face Festival
Si chiude con il dj set di Alex Perdido la VI edizione del Facefestival, una maratona di immagini e musica che per quattro giorni ha invaso il Fortino di Arghillà. Dopo Paolo Genoese, Paolo Albanese, Francesco Scialò, Marcello Arosio di Kernel, Ernesto Orrico, Riccardo Melito e Tamara Marino, incontriamo Mauro Laruffa. In una saletta sull’ala destra del forte ha trovato posto una scultura bizzarra, ludica, sinteticamente contratta nelle forme e fissa nell’espressione.
Si tratta dell’opera dal suggestivo titolo “Riflessioni di disagio con mare mosso” di Laruffa. Si riconosce un corpo, ma trattato in forma aniconica e la sintesi di una struttura che potrebbe essere un ombrellone o comunque qualcosa che funge da riparo, finto riparo visto che non ne rimangono che brandelli di materia. Accanto una finestra di pigmento di colore azzurro, sembra il mare. “In realtà se guardi bene questo personaggio ti accorgi che l’espressione c’è, l’aria è smarrita, gli occhi sono vuoti – racconta l’artista. Il pensiero che sta dietro il lavoro rimanda a tutte le migliaia di persone che ogni mese arrivano sulla nostra terra, immigrati e naufraghi, e li vedi in giro poi, spesso con quest’aria smarrita e vuota appunto. E poi c’è l’azzurro del mare, il luogo che hanno attraversato e che per noi cresciuti in questa terra è simbolo di libertà, ampiezza, orizzonte, mentre per loro si trasforma in un vortice di morte e paura”.
Laruffa è autodidatta e prosegue il suo percorso da outsider attraverso l’assemblaggio di parti da un tutto “già dato”; come un bricoleur assembla, combina, trasforma partendo da ciò che ha. I materiali usati infatti sono di scarto e riciclo, come di consueto. Lo scheletro della scultura è in ferro, il resto si compone di polveri colorate che con paziente riflessione si poggiano sulle superfici fino a dargli uno spessore. Il Face finisce dunque anche quest’anno in una ariosa serata di agosto e tanti sono stati i volti scesi nella sua arena, oltre quelli di cui abbiamo parlato, ricordiamo: Jessica Barret, Leonardo Cannistrà, Carmela Cosco, Enrico Ferrari, Salvatore Minoliti, Cristina Comi, Lucrezia Zema, Enzo Penna, Antonio Sollazzo, Larissa Mollace, Domenico Lofaro, Jhonny Wild e Ivana Russo.
E tra le tante riflessioni che questo festival ha e può provocare, quella sull’identità sembra la più rilevante anche in considerazione dell’hashtag #tradizionevoluzione lanciato come un leitmotiv ed a cui direttamente e indirettamente molti dei lavori che abbiamo visto si connettono. C’è l’identità di un luogo, infatti, connotato geograficamente all’interno di una rete di 24 fortini a guardia dello Stretto costruiti nel secolo scorso e che fino a qualche tempo fa giaceva in disuso e l’identità di un evento che continua a vivere grazie in particolare all’entusiasmo ed alla volontà degli organizzatori e dei singoli individui che di volta in volta scelgono di imbarcarsi in questa avventura.
L’arte più volte si è dimostrata l’azione più efficace e immediata per riportare in vita aree dismesse e in disuso, arte intesa non come momento esclusivamente espositivo, ma come momento di relazione, di connessione, di partecipazione tra più persone che tra sogno e realtà decidono di condividere un’idea. Spesso i protagonisti della storia si somigliano, a volte si ripetono o si rincorrono negli anni ma questo è il giusto spirito di un progetto che prende anche una posizione, decidendo di sostenere gli artisti del proprio territorio mettendo loro a disposizione uno spazio unico e i giovani talenti che hanno bisogno di sperimentare e di relazionarsi con gli spazi fisici prima ancora che mentali dell’arte.
Così l’identità che è anche memoria, tradizione e necessariamente evoluzione, prende forma in questo luogo in cui metaforicamente si è parlato anche di naufragio, e se il naufragio è quel punto in cui non si è più, se ancorati a qualcosa di forte, solido e duraturo naufragare sarà dolcissimo, perdersi per poi ritrovarsi tra colori, musica ed immagini.