Aziende in crisi “rilevate” per truffare fornitori, così la ‘ndrangheta metteva le mani nel Nord Est
Acquisivano aziende in difficoltà economica, poi le intestavano a dei prestanome e così realizzavano delle truffe ai danni di ditte fornitrici di diversi prodotti ma anche a banche ed istituti finanziari. Il volume d'affari che erano riusciti a far “girare” con le truffe è stato stimato intorno alla cifra di 12 milioni di euro.
Stamani però è scattato il blitz durante il quale i carabinieri di Venezia, coordinati dalla Dda del capoluogo lagunare, hanno eseguito una decina di misure cautelari e una sessantina di perquisizioni, nell’ambito di un’indagine che farebbe luce sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta calabrese nel tessuto economico del Nord Italia.
Per gli inquirenti i destinatari dei provvedimenti farebbero parte di un sodalizio criminale contiguo proprio alla 'ndrangheta. Agli indagati vengono contestati i reati di violenza aggravata dal metodo mafioso, truffa, bancarotta fraudolenta, ricettazione e riciclaggio.
I DETTAGLI DELL’OPERAIONE “NUOVA FRONTIERA”
Le misure cautelari eseguite stamani, nell’ambito dell’operazione denominata “Nuova Frontiera”, sono sette in tutto, e l’indagine è scattata nell’area di San Donà di Piave. Una sessantina, invece, le persone iscritte nel registro degli indagati a cui si contesta, a vario titolo, i reati con l'aggravante, per diversi di loro, di aver agito avvalendosi di metodi mafiosi e per agevolare la ‘ndrangheta calabrese, attraverso le sue articolazioni.
Le perquisizioni – che sono ancora in corso - sono state effettuate in varie regioni d'Italia nei confronti dei presunti ricettatori e fiancheggiatori. Dalle indagini è emerso che oltre 150 imprese siano state truffate con un danno stimato intorno ai 5 milioni di euro.
Sono state individuate diverse società e imprese individuali in Veneto che erano divenute obiettivo del gruppo e utilizzate per mettere in atto le truffe ai danni di imprenditori di diverse regioni della Penisola, ad eccezione della Calabria che sarebbe stato invece il luogo di destinazione dei beni ottenuti illecitamente.
Documentate, poi, truffe ai danni di società di leasing e ad istituti bancari, ma anche reati relativi all’utilizzo indebito di carte di pagamento così come casi di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale. Quasi tutte le aziende acquisite, difatti, venivano portate al fallimento.
IL MODUS OPERANDI
Da quanto accertato dai carabinieri, il gruppo individuava ed acquisiva le società in difficoltà finanziaria intestandole a dei prestanome così da presentarsi sul mercato come affidabili partner commerciali; tramite le ditte effettuava le truffe e poi le faceva fallire; le aziende si mandavano in bancarotta nel volgere di brevi periodi (circa 90 giorni) così di sfuggire alla reazione delle vittime e alle ricerche degli investigatori; successivamente si ricollocava sul mercato centinaia di tonnellate di prodotti della più disparata tipologia (generi alimentari, latticini, frutta, materiali per l’edilizia e l’idraulica, gruppi elettrogeni, container refrigeranti, ecc.); il ricollocamento avveniva in particolare in Calabria grazie ad una vasta rete di ricettatori del posto (alcuni dei quali contigui alle cosche); i proventi illeciti venivano poi riciclati attraverso delle società di leasing inconsapevoli, cui si chiedevano servizi funzionali alle attività; inoltre si utilizzavano carte carburanti intestate a flotte aziendali inesistenti, utilizzate per l’effettuazione dei rifornimenti e la rivendita clandestina del prodotto petrolifero acquisito illecitamente.
IL COMMESSO MINACCIATO ED IL MARKET SVUOTATO
Le indagini evidenzierebbero dunque un “metodo mafioso” adottato da alcuni componenti del sodalizio, tra i quali uno dei due arrestati, accusati di aver minacciato e percosso un giovane commesso stagionale, dopo averlo condotto di forza nel retrobottega di un supermercato di Jesolo Lido (VE), unità gestita in affitto d’azienda attraverso una società che sarebbe stata asservita alla compagine criminale.
La punizione sarebbe scattata perché il giovane si sarebbe permesso di caldeggiare, legittimamente, la busta paga, paventando, in alternativa, di rivolgersi alle organizzazioni sindacali e così scatenando la capacità intimidatoria del gruppo, che fino ad allora era stata latente. L’episodio risale alla fine di agosto del 2015.
Il supermercato in questione, la notte tra il 30 e 31 agosto di quell’anno, venne svuotato ed abbandonato, suscitando grave apprensione tra i fornitori della zona, raggirati dal sodalizio che da questa operazione ci avrebbe guadagnato di diverse centinaia di migliaia di euro. Il market, secondo quanto accertato dagli inquirenti, riusciva a fruttare almeno cinquemila euro al giorno, al netto delle spese, trattandosi di merce che veniva acquistata con la formula di pagamento a 30, 60 o 90 giorni, tempo sufficiente al gruppo per mettere a segno le eventuali truffe e poi sparire.
L’episodio intimidatorio documentato per gli inquirenti sarebbe “significativo di un innalzamento della pericolosità nel territorio economico veneto manifestata dal gruppo criminale, che pur di realizzare consistenti illeciti profitti” non sarebbe arretrato nei propri propositi “e che, anzi, di fronte agli ostacoli legittimamente posti dal tessuto “sano” della società locale” non avrebbe esitato a utilizzare anche in Veneto metodiche di stampo mafioso.
L’obiettivo di queste condotte sarebbe, evidentemente, quello di condurre ad una posizione di sudditanza il singolo e soprattutto il lavoratore, facendolo diventare un “comodo strumento” non solo dei datori di lavoro ma soprattutto di quei datori “che, per di più avvalendosi di metodiche violente e intimidatorie, hanno danneggiato pesantemente l’economia del territorio veneto”.
I DESTINATARI DEL PROVVEDIMENTO
In arresto sono finiti in due. Si tratta di Michelangelo Garruzzo, 56enne originario di Rosarno (nel reggino) ma da tempo trapiantato in provincia di Treviso; e Antonio Anello, 63enne originario di Curinga (nel catanzarese), che viveva di solito tra la Calabria e il Veneto.
In cinque, invece, considerati come sodali dei due, in pratica il “braccio operativo” del gruppo, sono stati raggiunti dall’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria: F.S., 70enne di Pescara; A.D., 32enne di Curinga (CZ); P.R., 34enne di Curinga (CZ); G.S., 31enne di Rosarno (RC) e G.C., 47enne di Rosarno (RC),
Quanto alla presunta contiguità con la ‘ndrangheta, in particolare: Garruzzo è ritenuto continua alla cosca Pesce di Rosarno e Anello ai “Fiarè” di San Gregorio d’Ippona (nel vibonese), clan alleato ai Mancuso di Limbadi.
Ad Anello è stata contestata, tra l’altro, anche l’aggravante di aver continuato a commettere reati, sotto il vincolo associativo, nel triennio successivo alla cessazione degli effetti della misura di prevenzione personale, dato che il Tribunale di Catanzaro, fino a settembre del 2011, l’aveva stato sottoposto alla sorveglianza speciale.
(aggiornata alle 14:15)