Clan Santaiti: accolti dalla Cassazione gran parte dei ricorsi
La complessa vicenda cautelare ha ad oggetto l’accusa di associazione mafiosa ed altri reati contestata dalla DDA di Reggio Calabria a 14 membri della famiglia Santaiti, comprese le donne, più altri presunti sodali, che secondo la Procura reggina rappresenta attualmente il clan mafioso egemone a Seminara.
L’originaria richiesta delle misure cautelari aveva registrato una netta diversità di valutazione tra l’Ufficio Gip del capoluogo dello Stretto, che l’aveva respinta, ed il Tribunale del Riesame, che in sede di appello, aveva invece accolto le richieste della Procura.
L’esecuzione dei relativi provvedimenti restrittivi era però rimasta sospesa in attesa della decisione dei ricorsi proposti dagli imputati, che la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’esito dell’udienza di martedì scorso, ha per buona parte accolto.
Diversi, infatti, gli annullamenti senza rinvio del provvedimento del Tribunale della Libertà, tra i quali spicca quello del presunto capo Carmine Demetrio Santaiti, difeso dagli Avvocati Francesco Lojacono e Nunzia De Ceglia.
Stessa decisione per Rosa Anna Santaiti, Michele Santaiti (cl.’88), Carmine Forcella, Francesco Ottinà, Rocco Giovanni Ottinà e Maria Luisa Davì e per Saverio Rocco Santaiti, limitatamente però, per quest’ultimo, ad una ipotesi estorsiva.
Per la posizione di Graziella Loredana Santaiti l’annullamento è stato pronunciato con rinvio per un nuovo esame allo stesso Tdl, mentre i ricorsi dei rimanenti indagati sono stati dichiarati inammissibili.
Al gruppo indagato vengono contestati il controllo delle attività illecite nel territorio di Seminara, le decisioni di sopprimere gli oppositori, la riscossione delle tangenti relative ai lavori di rifacimento del tratto autostradale di riferimento.
Il tutto attraverso accordi mafiosi e spartitori con il clan dei Gallico di Palmi.
Alle mogli e figlie dei membri del presunto clan, viene invece attribuito il ruolo di “messaggere” degli ordini impartiti dai detenuti.
La pronuncia della Cassazione rimette ora in discussione buona parte dell’impianto accusatorio articolato dalla Procura reggina.