“Grandi firme” a prezzi troppo bassi: capi falsi venduti sul web, stoppato un traffico da 4,5 milioni
Abbigliamento di lusso a prezzi super concorrenziali, scontatissimi. Se ne pubblicizzava la vendita tramite delle “vetrine virtuali” sfruttando l’enorme diffusione dei social network: da Facebook a Twitter, da Instagram a Pinterest fino a Youtube. Un mercato tramite canali “molto riservati”, utilizzando anche account di messaggistica WhatsApp.
Tutto molto conveniente per gli acquirenti. Tutto completamente finto, considerato che i capi in commercio, prodotti principalmente in Turchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, erano falsi: arrivavano in Italia con dei corrieri internazionali e poi venivano rivenduti e distribuiti ad esercenti su tutto il territorio nazionale.
Un ingente traffico di abbigliamento e accessori di lusso contraffatti, dunque, smascherato dai finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Ancona, che hanno stoppato il business con una vasta operazione, chiamata in codice “Spider web”, eseguita in diverse regioni del paese, anche in Calabria così come nelle Marche, Lazio, Emilia Romagna, Sicilia, Toscana, Sardegna, Campania, Piemonte, Lombardia, Veneto e Abruzzo.
Falsificate le marche di importanti brand come “Gucci”, “Luis Vuitton”, “Chanel”, “Prada”, “Hermes”, “Givenchy”, “Bikkembergs”, “Armani”, “Fred Perry”, “Tommy Hilfiger”, “Moschino”, “Dsquared2”, “Ralph Lauren”, “Emporio Armani”, “Burberry” e “Lacoste”. Case produttrici che hanno collaborato anch’esse all’indagine mettendo a disposizione degli esperti anticontraffazione.
Le investigazioni delle Fiamme Gialle sono durate oltre sei mesi, e sono state attuate praticamente presidiando costantemente siti web, profili social e pagine presenti sui social network. È così che i militari hanno individuate le “vetrine virtuali” gestite da operatori specializzati nel mercato delle vendite di abbigliamento online.
LE “VETRINE VIRTUALI”
Tra queste c’era un’impresa gestita da due coniugi di Ancona, S.A. ed M.E., rispettivamente di 43 e 44, che pubblicizzava appunto numerosi prodotti di lusso a prezzi concorrenziali, in particolare nella transazione tra il produttore ed il grossista.
Analizzando i flussi commerciali e finanziari si è scoperto che il “negozio virtuale”, che era riservato solo ad operatori del settore dell’abbigliamento, e ai quali si richiedeva una registrazione sul sito web, alimentasse proprio io mercato del falso.
Le investigazioni sono state eseguite dagli specialisti delle fiamme gialle della Sezione Diritti di Proprietà Intellettuale e Industriale del Nucleo PEF di Ancona, e sono scattate dalla scorsa primavera concentrandosi anche sull’analisi delle movimentazioni dei maggiori corrieri nazionali. Da qui si è giunti all’individuazione di numerosi punti vendita in dodici regioni Italiane che compravano i prodotti falsi da una ditta marchigiana.
Elementi acquisiti nel corso dell’indagine hanno così portato la Procura della Repubblica locale ad emettere degli appositi provvedimenti di perquisizione e di sequestro nei confronti di trenta operatori commerciali e a mettere i sigilli a circa 15 mila prodotti che, una volta messi in vendita, avrebbero garantito un guadagno di oltre 4,5 milioni di euro.
LE DECINE DI DENUNCE
Denunciate a piede libero, poi, 35 persone, titolari degli esercizi commerciali interessati dall’attività illecita, accusati di aver portato in Italia e messo in vendita prodotti “con segni falsi” oltre che di ricettazione, reati che prevedono delle pene complessive anche fino a dodici anni di reclusione.
Gli investigatori raccontano come fosse emblematica, in quanto capace di ingannare efficacemente i consumatori, la scoperta sui falsi capi di abbigliamento delle etichette con il “codice QR” scansionabile, che una volta inquadrato attraverso lo smartphone, rimandava ad un sito web generico di vendite online, mentre il vero Quick Response Code contiene invece un codice univoco identificativo del prodotto ed il suo link porta l’utente al sito ufficiale del titolare del marchio.
Nel corso delle perquisizioni eseguite nei confronti di esercizi commerciali ubicati, tra l’altro, a Roma, Milano, Palermo, Torino, Bologna, Rimini, Napoli, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Nuoro, Pisa, sono stati ritrovati documenti fiscali che attestavano falsamente la provenienza della merce direttamente dalle case madri.