La finta “redenzione”, il boss che torna a casa e il controllo del territorio: 11 arresti

Reggio Calabria Cronaca

Il “vecchio” boss era tornato a casa, nel suo paese, Taurianova, dopo una lunga detenzione, durata 30 anni, e un periodo di sorveglianza speciale, nel nord Italia.

Un rientro non casuale per gli inquirenti: lo scopo sarebbe stato quello di continuare ad imporre il controllo egemonico del territorio, con tutti quegli “strumenti” che hanno da sempre consentito alla ‘ndrangheta di far sentire, forte, la propria presenza e “pressione”, anche e soprattutto sull’economia locale.

Parliamo di Pasquale Zagari, ritenuto a capo e reggente dell’omonima famiglia Zagari-Fazzalari-Viola-Sposato che con gli Avignone “controllano” l’area taurianovese.

Un “vecchio ‘ndranghetista mai ravvedutosi realmente” lo dipingono gli investigatori, e referente per la risoluzione di qualsivoglia questione. Una posizione, la sua, rafforzata dall’imposizione del pizzo”, ma anche persona a cui ci si sarebbe affidati per la risoluzione di contrasti privati.

Zagari rappresenta dunque l’elemento cardine dell’inchiesta “Spes contra Spem(QUI) che stamani ha fatto scattare le manette per undici persone, dieci delle quali finite in carcere e una ai domiciliari, ritenute appartenere o comunque aver favorito le due cosche locali

GLI INDAGATI

Le porte del carcere si sono spalancate, così, oltre che per Pasquale Zagari, classe 1964, anche per Antonino Alessi, classe 1989; Francesco Avati, classe 1982; Domenico Avignone, classe 1975; Giuseppe Cannizzaro, detto Enzo, classe 1970; Annalisa Caridi, classe 1970; Claudio Laface, classe 1964; Giuseppe Laface, classe 1986; Rocco Leva, classe 1975; Marzio Pezzano, classe 1970.

Ai domiciliari, invece, è stato posto Giuseppe De Raco, classe 1964; mentre sono indagate in stato di libertà altre quattro persone: R.A., classe 1966; R.A., classe 1971; C.M., classe 1972; e R.G., classe 1980.

L’AVVIO DELLE INDAGINI

La complessa e articolata attività investigativa, è stata avviata dai Carabinieri di Taurianova nel giugno dell’anno scorso, e ha potuto contare anche sulle testimonianze di alcuni imprenditori vittime di estorsione.

Tutto parte dalla raccolta di alcune dettagliate informazioni e che hanno fatto ipotizzare come alcuni imprenditori subissero appunto vessazioni ed estorsioni da parte esponenti della ‘ndrangheta locale.

Lo sviluppo delle indagini ha portato a riscontrare le prime informazioni acquisite e ad identificare alcune delle vittime che, una volta sentite, hanno ammesso quanto subissero, in particolare, da due due persone ritenute storici referenti mafiosi della zona, ovvero Domenico Avignone e Pasquale Zagari.

Come accennavamo all’inizio, l’ipotesi è quindi che quest’ultimo, con la collaborazione di altri, come Francesco Avati, Antonio Alessi e Rocco Leva, fosse tornato nel suo paese per stare a capo del clan.

I REFERENTI FAMILIARI

Zagari sarebbe infatti l’unico esponente di rilievo della famiglia ad essere libero da vincoli giudiziari, dato che gli altri fratelli, Giuseppe (cl. ’63) e Carmelo (cl. ’69) sono al momento detenuti.

Il primo è stato condannato in via definitiva all’ergastolo ed il secondo anche dalla Corte di Appello di Reggio Calabria nell’ambito procedimento “Terramara Closed(QUI), ritenuto appartenente alla ‘ndrangheta insieme alle sorelle Italia (cl.’59 e moglie dell’ergastolano Marcello Viola, cl.’59) e Rosita cl.’75, entrambe condannate per concorso esterno nell’ambito della stessa inchiesta.

Ma anche insieme al cognato Ernesto Fazzalari, marito di Rosita, ed anch’egli condannato all’ergastolo, con sentenza definitiva, per diversi omicidi, e catturato nel 2016 dopo una latitanza ventennale (QUI).

L’APPARENTE RIABILITAZIONE SOCIALE

Pasquale Zagari è poi ritenuto uno dei principali protagonisti della faida di ‘ndrangheta di Taurianova dei primi anni ’90, ed era stato condannato all’ergastolo, pena però poi rideterminata in 30 anni.

Concluso un periodo di sorveglianza speciale aveva avviato un apparente percorso di “riabilitazione sociale”, partecipando a dibattiti, convegni e incontri, come testimone di redenzione, pentendosi del suo passato criminale, e anche contro l’ergastolo ostativo, in ultimo proprio a Taurianova, nel settembre del 2020.

Gli inquirenti sostengono però che “in realtà, proprio nei primi permessi rilasciati durante la sorveglianza speciale una volta uscito dal carcere”, Zagari fosse ritornato a Taurianovaper compiere le sue attività delittuose, insieme a nuove leve della criminalità organizzata”.

In particolare, per come risulterebbe dall’ indagine, con la collaborazione di altri indagati, facendo ricorso a minacce gravi, anche evocando esplicitamente i morti della faida di Taurianova e la sua capacità di risolvere i problemi con la violenza, avrebbe costretto imprenditori e cittadini a sborsare denaro sia per rafforzare la cosca e sia per mantenere le famiglie in carcere.

In altri casi li avrebbe partati ad abbandonare i locali utilizzati per la loro attività commerciale o, ancora, si sarebbe intromesso nella compravendita di terreni, chiedendo somme non dovute per autorizzare l’acquisto o comunque forzando la loro volontà nelle scelte imprenditoriali e private, in favore di altri soggetti a lui vicini.

Zagari avrebbe anche offerto e imposto la sua protezione mafiosa, non richiesta, alle vittime, in cambio di aiuti economici e favori, il tutto per tentare di ristabilire il controllo del territorio e ottenere l’assoluto riconoscimento di “capo”.

Proprio a causa della violenza e insistenza delle sue pretese, nell’ottobre 2020 era stato arrestato in flagranza dai Carabinieri di Taurianova, in occasione di una ennesima “visita” ad una delle vittime (QUI), in realtà vicenda ritenuta rientrare in un più ampio piano delinquenziale.

L’AIUTO MAFIOSO CHE SOSTITUISCE LO STATO

In questi fatti entrerebbero in gioco anche altre persone, come Marzio Pezzano, Giuseppe De Raco e Giuseppe Cannizzaro.

Secondo gli investigatori, quest’ultimi, benché apparentemente estranei a contesti mafiosi, si sarebbero rivolti a vario titolo proprio a Pasquale Zagari per risolvere forzatamente a loro favore delle controversie in corso con alcuni degli estorti, anche per ottenere il rilascio dei locali utilizzati per le attività aziendali.

Così sarebbero dunque divenuti dei veri e proprio mediatori,partecipi e mandanti di azioni delittuose, ricercando e ottenendo quell’aiuto ‘mafioso’ che rafforza e fortifica la criminalità organizzata nel territorio, in sostituzione dello Stato”, affermano gli inquirenti

Una richiesta illecita di aiuto che però si è ritorta contro, essendo stati raggiunti dalla misura cautelare come concorrenti in estorsione aggravata dal metodo e finalità mafiose.

I CUGINI MEDIATORI IN NOME DELLA PAX MAFIOSA

Nell’indagine viene ritenuto significativo anche il ruolo di due cugini indagati in stato di libertà che, benché già ritenuti appartenenti alla cosca degli Asciutto-Neri-Grimaldi, al tempo della faida contrapposta agli Zagari, oggi, per garantire quella “pax mafiosa” raggiunta faticosamente, avrebbero svolto un ruolo di mediatori in favore di Zagari e a danno di una delle vittime, organizzando e favorendo degli incontri e persuadendola ad accettare le pretese estorsive.

AVIGNONE E “L’ESTORSIONE AMBIENTALE”

L’inchiesta di oggi, poi, si concentra sulla figura di Domenico Avignone, al momento ricercato e anche lui già condannato per reati associativi, figlio dello storico capo Giuseppe (cl. 38), a sua volta finito all’ergastolo e protagonista della Strage di Razza del 1977, quando furono trucidati i Carabinieri Stefano Condello e Vincenzo Caruso.

L’ipotesi della Procura è, infatti, che abbia voluto mantenere nel territorio la sua autorevolezza mafiosa, offrendo “protezionenon richiesta ad alcuni imprenditori, risolvendogli problematiche emergenti o rassicurandoli sullo svolgimento “in sicurezza” del loro lavoro.

Il tutto chiedendo in cambio del denaro, non necessariamente di grande entità, ma comunque tutti elementi che qualificano quella cosiddetta “estorsione ambientale” che rafforza la criminalità organizzata nel territorio.

Secondo la procura, quindi, anche Avignone si sarebbe intromesso nell’acquisto di terreni e immobili, arrogandosi il potere di rilasciare un “nulla osta” in favore di qualcuno piuttosto che di altri, e avendo il potere di estromettere eventuali soggetti non graditi interessati all’acquisto.

Sono stati poi documentati ulteriormente i suoi “costanti e attuali rapporti” con altre cosche della Piana di Gioia Tauro, in particolari i Pisano di Rosarno, soprattutto come referente nel settore dello smercio di stupefacenti.

Una figura che, nonostante l’avvio e conduzione di una attività commerciale legale e un atteggiamento apparentemente meno violento e riservato, avrebbe continuato ad esercitare carisma criminale e influenza mafiosa.

GLI IMPRENDITORI ESTORSORI DI IMPRENDITORI

Articolata poi la vicenda ricostruita nel corso delle investigazioni e che avrebbe visto come principali protagonisti i Claudio e Giuseppe La Face, rispettivamente zio e nipote, imprenditori di Taurianova, e la moglie del primo, Annalisa Caridi.

Sempre secondo gli inquirenti, nel contesto della paura e dell’omertà esistente nel territorio, avrebbero compiuto numerose minacce per ottenere del denaro da un altro imprenditore locale.

I tre, e a vario titolo, approfittando di problematiche personali e sentimentali di una delle vittime, avrebbero fatto leva su loro presunti collegamenti con le cosche di Cittanova, i cui esponenti avrebbero potuto risolvere i suoi problemi, imponendo protezione e aiuto mafioso.

Così facendo, e però, avrebbero costretto la vittima, anche minacciando gravi ripercussioni in caso di inottemperanza, a numerose dazioni in denaro a loro favore, e per diverse decine di migliaia di euro.

A questo scopo, addirittura, talvolta avrebbero ingannato la vittima sostituendosi direttamente a presunti esponenti della criminalità organizzata cittanovese, inviando messaggi diretti e indiretti per convincerla a consegnare celermente loro i soldi o costringerla al pagamento di bollette, utenze, rate di finanziamenti ed altro.

LA SANTABARBARA DEL CLAN

L’attuale e rilevante pericolosità del gruppo mafioso sarebbe dimostrata anche dal ritrovamento e sequestro di due fucili mitragliatori Zastava, modello M70, cal.7,62x39 mm; di armi da guerra; un fucile Sauer cal. 12 della Beretta con la matricola punzonata; numerose munizioni di vario calibro; finanche due giubbotti antiproiettile e una bomba a mano da guerra modello m53 p3 di provenienza slava.

“L’operazione odierna - spiegano soddisfatti gli investigatori - colpisce ancora una volta la presenza della ‘ndrangheta nel territorio taurianovese, i cui esponenti, avvalendosi della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e delle conseguenti condizioni di omertà che ne derivano, sono in grado di mantenere il controllo egemonico del territorio in svariati settori creando quell’assoggettamento psicologico ed economico di cittadini ed imprenditori, per coartarli nelle loro scelte individuali e ponendosi quali non imparziali ‘arbitri’ nelle controversie tra privati, in sostituzione della Legge e dello Stato. Ancora una volta viene però dimostrato come l’unica vera e risolutiva via di uscita da una tale asfissiante situazione è rappresentata dalla denuncia e la piena collaborazione con i Carabinieri e la Magistratura”.

L’OPERAZIONE è stata eseguita, nelle province di Reggio Calabria, Brescia e Monza-Brianza, dai Carabinieri del Comando Provinciale del capoluogo dello Stretto, con il supporto di militari dei comandi competenti per territorio, dello Squadrone Carabinieri Eliportato “Cacciatori” e dell’8° Nucleo Elicotteri di Vibo Valentia, sotto lo stretto coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia diretta da Giovanni Bombardieri.

L’ordinanza è stata emessa dal Gip Tommasina Cotroneo, su richiesta del Procuratore Aggiunto Calogero Gaetano Paci e del Sostituto Giulia Pantano.