Il “pizzo”, la discarica sul torrente e la concessionaria “mascherata”: quattro arresti, nove indagati

Reggio Calabria Cronaca

Il tutto è scattato da un tentativo di estorsione subito, esattamente quattro anni fa, da una azienda lucana impegnata in dei lavori pubblici.

Dopo la denuncia di quel fatto, gli investigatori avevano difatti iniziato ad indagare per risalire ai responsabili ma si sono imbattuti - invece ed anche - in una serie di presunti reati ambientali da parte della stessa azienda vittima della richiesta estorsiva.

Da qui è iniziata l’inchiesta “Mercato Libero” (QUI) che quest’oggi ha portato all’arresto di quattro persone, due finite in carcere e altrettante ai domiciliari.

Altre cinque di persone, socie di una cooperativa, la Effe Motors di Reggio Calabria, concessionaria autorizzata per i marchi Honda e Mazda, sono stati invece raggiunti da una interdittiva che prevede il divieto di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche e imprese, per 6 mesi, con la contestazione del reati di trasferimento fraudolento di valori.

GLI INDAGATI

Le porte della casa circondariale cittadina si sono così spalancate per Emilio Angelo Frascati, cl. 1969, a cui si contesta l’associazione mafiosa; e Gaetano Tomaselli, cl. 1978, accusato di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso.

Sottoposti ai domiciliari, invece, Demetrio Frascati, cl. 1974, ritenuto responsabile di trasferimento fraudolento di valori; e Paolo Frascati, cl. 1981, accusato di trasferimento fraudolento di valori;

I soci della cooperativa raggiunti dall’interdittiva sono Antonia Temi, cl. 1970; Saverio Musarella, cl.1960; Caterina Nicolò, cl. 1974; Elvira Caterina Cocchiarale, cl.1970; e Emilio Angelo Romeo, cl.1965.

Disposto poi il sequestro preventivo delle quote e dell’intero compendio aziendale della Effe Motors e su proposta della Guardia di Finanza, invece, sono scattati i sigilli, finalizzati alla confisca cosiddettaallargata”, di un immobile a sei piani fuori terra ed uno interrato che si trova in località Fondo Schiavone del capoluogo, oltre all’autovettura intestata alla moglie di uno degli indagati.

I PRODROMI DELL’INDAGINE

Ma andiamo per ordine. Era il 2 agosto del 2017 e l’azienda Paeco Srl era impegnata nella riqualificazione del quartiere Ravagnese del capoluogo dello Stretto, in particolare nel collegamento viario sulle golene del torrente Sant’Agata, tra la Superstrada Jonica e la zona sud del capoluogo. Un appalto da poco più di 3,2 milioni aggiudicato dalla società due anni.

La società, come dicevamo, quel giorno si vide recapitare una richiesta estorsiva e proprio su questo episodio iniziarono ad indagare gli uomini del nucleo investigativo dei carabinieri cittadini.

I militari individuarono da una foto uno degli operai presenti durante il “fatto”, e da lì giunsero ad identificare uno dei presunti responsabili, Gaetano Tomaselli, 43enne ritenuto far parte della cosca di ‘ndrangheta dei Libri (QUI).

Una appartenenza che sarebbe già emersa nell’ambito dell’indagine “Teorema-Roccaforte” (QUI), che fece luce su delle altre e precedenti estorsioni che Tomaselli avrebbe avanzato a dei commercianti locali.

“GLI AGGIUSTAMENTI INTERNI”

Per individuare altri eventuali responsabili, sempre nell’agosto del 2017, si avviò così un monitoraggio investigativo nei confronti degli operai presenti in cantiere, concentrandosi particolarmente sul responsabile di cantiere che aveva denunciato l’accaduto alle Forze dell’Ordine solo tre giorni dopo la richiesta, giustificando quel ritardo con la necessità per il direttore tecnico e procuratore speciale dell’azienda di confrontarsi con il proprio legale di fiducia.

Tuttavia, le risultanze investigative portarono a far ritenere che il motivo reale di questo indugio nel denunciare fosse da ricercare nel tentativo da parte dei rappresentanti dell’impresa di interessare degli esponenti o, comunque, dei soggetti vicini alla criminalità organizzata reggina, per far fronte alla richiesta estorsiva mediante ‘aggiustamenti interni’, tipici degli ambienti mafiosi”, sostengono gli inquirenti.

Sempre secondo gli investigatori, dunque, i gestori della Paeco, per il tramite del responsabile di cantiere, avrebbero investito della questione Emilio Angelo Frascati, considerandolo come il referente di zona della ‘ndrangheta a cui affidarsi per intercedere con i vertici della cosca per risolvere la questione.

Seguendo questa direttrice, le indagini si sono concentrate proprio sulla figura di Frascati, così da poter delineare la sua presunta partecipazione alla cosca, prendendo in esame sia le risultanze tecniche del suo “intervento” in veste di intermediario nella vicenda estorsiva, sia analizzando quanto raccontato da diversi collaboratori di giustizia.

Frascati è figlio di Antonino, condannato in via definitiva per associazione mafiosa, come partecipe ai Libri, clan che detiene l’egemonia criminale nella zona in cui insisteva il cantiere della Paeco.

IL CANTIERE TENUTO D’OCCHIO

Così, durante le indagini sull’estorsione, il cantiere venne tenuto sotto controllo con dei servizi di osservazione video. Una attività, questa, che ha portato a scoprire le diverse presunte violazioni ambientali da parte dell’azienda lucana, e che si crede siano avvenute con la collusione della Direzione dei Lavori.

Nello specifico, gli inquirenti ipotizzano che nel corso delle operazioni di movimento terra, scavo e demolizione, la società abbia gestito abusivamente un ingente quantitativo di rifiuti speciali, pericolosi e non, già presenti sull’area di cantiere, tra cui anche alcuno contenente amianto frantumato.

Il prodotto ricavato, invece di essere selezionato o smaltito secondo quanto previsto dalle norme ambientali, sarebbe stato in realtà miscelato con terra e rocce da scavo e poi riutilizzato per riempire avvallamenti e terrapieni.

La tesi è che gli indagati, per aumentare i profitti, piuttosto che sospendere immediatamente i lavori, segnalando quanto accertato agli organi competenti, avrebbero continuato, con la complicità dei responsabili comunali, ad eseguire il movimento terra, lo sbancamento e il riempimento su quasi tutta l’area di cantiere, “perfettamente consapevoli del grave danno che avrebbero arrecato all’ambiente ed incuranti dei siti di amianto ivi presenti”, sostengono i carabinieri.

LA DISCARICA NELLE GOLENE

Il cantiere venne poi sequestrato dal Nucleo Operativo Ecologico dell’Arma che, a seguito di un accesso al sito, riscontrò la presenza sul posto di rifiuti pericolosi, tra i quali - appunto - l’amianto.

Gli accertamenti compiuti sull’area in occasione del sequestro portarono a contestare all’impresa aggiudicatrice numerose violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

La presunta gestione illecita dei rifiuti avrebbe trovato riscontro nei sondaggi compiuti dal consulente tecnico incaricato dall’Autorità Giudiziaria a compiere studi approfonditi sul cantiere proprio volti a verificare la presenza o meno dei rifiuti pericolosi e non.

Gli esiti di quella consulenza, infatti, hanno evidenziato come l’area interessata dalla realizzazione delle golene del Torrente Sant’Agata fosse una vera e propria discarica.

Un dato questo che, tuttavia, era noto sin dalla progettazione dell’opera, posto che la condizione e lo stato in cui versava l’intera area erano già conosciuti dal novembre del 2007, quando lo stesso sito fu inserito nel piano delle bonifiche della Regione Calabria. Ad oggi, l’area non è stata ancora bonificata.

LA CONCESSIONARIA “MASCHERATA”

Nello stesso solco di indagine confluiscono inoltre gli esiti delle investigazioni eseguite sul conto di Demetrio e Paolo Frascati, fratelli di Emilio Angelo, in relazione all’ipotesi di reato di trasferimento fraudolento di valori.

Obiettivo degli inquirenti quello di risalire alla titolarità di un noto concessionario di autovetture da tempo attivo a Reggio Calabria, che si ritiene sia in realtà “perfettamente riconducibile” agli stessi Frascà.

Nello specifico, è stato ricostruito come i fratelli, da sempre attivi nel commercio degli autoveicoli, a seguito dei provvedimenti giudiziari che avevano portato nel tempo al sequestro ed alla successiva confisca di loro beni, tra cui la concessionaria Frauto Srl, abbiano messo in atto una manovra elusiva per mascherare i loro capitali aziendali, presumibilmente nel timore di subire altri provvedimenti di prevenzione.

Le indagini mirano dimostrare che la Cooperativa Effe Motors (che è un concessionario di autovetture) sia stata intestata fittiziamente ai soci della stessa, già dipendenti della Frauto, quest’ultima riconducibile a Demetrio e Caterina Frascati, in quanto sequestrata il 25 febbraio del 1997, in base agli esiti del procedimento “Olimpia”, e poi sottoposta a confisca irrevocabile.

La tesi è che sia stato attuato un meccanismo fraudolento per garantire ai fratelli Frascati la continuità nella gestione della Frauto dopo il sequestro e la confisca.

LA “PERFETTA SOVRAPPOSIZIONE DI RUOLI”

Gli investigatori sostengono che a questo, gli ex dipendenti della concessionaria - con il contributo di Elvira Cocchiarale ed Emilio Angelo Romeo, cugini e collaboratori fidati dei fratelli Frascati - abbiano costituito la cooperativa Effe Motors.

Tramite quest’ultima avrebbero così chiesto ed ottenuto dall’Agenzia del Demanio la concessione a titolo gratuito del patrimonio aziendale della Frauto, avvalendosi della normativa allora in vigore che era volta a tutelare i livelli occupazionali delle aziende confiscate.

Esaminando le fasi che hanno portato alla nascita, sequestro e confisca della concessionaria, ed alla conseguente formazione della società cooperativa che oggi ne gestisce il patrimonio, sarebbe emerso una continuità tra la Frauto e la Effe Motors, per gli inquirenti “con una perfetta sovrapposizione di ruoli e competenze che i Frascati hanno mantenuto invariati nel tempo, anche e soprattutto grazie alla fattiva collaborazione dei loro storici dipendenti che ‘formalmente’ amministravano, per giunta gratuitamente, il patrimonio che lo Stato ha dapprima sequestrato e successivamente confiscato ai Frascati, poiché riconosciuto ufficialmente quale provento di attività delittuosa”.

In sostanza gli investigatori sostengono che la concessionaria fosse gestita interamente da Paolo e Demetrio Frascati, e che i soci, anche quelli inseriti formalmente ai vertici dell’organigramma, come il presidente e i consiglieri di amministrazione, fossero in realtà subordinati ai fratelli, eseguendone le direttive ed a loro tenuti a rendere conto per tutto ciò che concernesse il rapporto lavorativo.

IL QUADRO INDIZIARIO

Il quadro indiziario che è stato così sottoposto alla valutazione del Gip è costituito da un copioso materiale intercettivo ed attività di osservazione, che hanno fatto ritenere che la Effe Motors sia gestita direttamente da Demetrio e Paolo Frascati, consentendo di ricostruire in dettaglio l’ipotesi di reato di trasferimento fraudolento di valori realizzato, appunto, dai fratelli attraverso la creazione della cooperativa.

Inoltre, sono stati eseguiti degli accertamenti per ricostruire l’iter procedurale che ha portato all’affitto a titolo gratuito dei beni della ex Frauto alla Effe Motors.

Dai documenti acquisiti emergerebbe quindi, ed in tal senso, che vi siano state, in più occasioni, delle lacune procedurali, “evidentemente dovute a superficialità dei funzionari/dirigenti che nel tempo si sono succeduti, oltre che evidenti difetti di comunicazione tra le varie amministrazioni interessate”, sostengono dall’Arma.

Le investigazioni si sono incentrare anche sugli accertamenti di natura patrimoniale, svolti dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria a carico dei Frascati, i cui esiti hanno fanno ritenere vi siano dei significativi elementi sperequativi che contraddistinguerebbero delle condotte considerate “anomale” di Elvira Cocchiarale e del cugino Demetrio Frascati, le cui entrate lecite e note all’Erario, confrontate con il costo della vita media annuale, farebbero emergere delle gravi incompatibilità rispetto ai loro beni posseduti ed ai risparmi accumulati.

L’ATTIVITÀ, nel suo complesso ha consentito di porre sotto sequestro beni per un valore complessivo di circa 10 milioni di euro.

L’operazione è stata condotta dai Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria coadiuvati dalla Compagnia della Guardia di Finanza locale, a conclusione delle indagini che sono state coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura cittadina, diretta da Giovanni Bombardieri, e dirette dal Sostituto Procuratore della Dda Sara Amerio