“Serbatoi” di manodopera a servizio delle aziende turistiche: c’era il trucco, 15 indagati
Ci sono due 55enni calabresi - Sergio Riitano, originario di Cosenza, e Giuseppe Paparratto, di Ricadi (nel vibonese) - tra le sei persone arrestate stamani nel corso dell’operazione “Dentro o Fuori” (QUI), condotta dalle fiamme gialle di Catania e che avrebbe fatto luce su quello che gli inquirenti hanno definito un “sistema consorzio” che avrebbe somministrato manodopera in modo fraudolento e messo in atto una frode fiscale.
Riitano, ex commissario liquidatore del Corap ad aprile scorso era stato nominato commissario straordinario dell’Arsai, la neonata Agenzia delle aree industriali voluta dal presidente della Regione Roberto Occhiuto (non coinvolto nell’inchiesta). Paparatto, invece, è coinvolto anche nel processo sul fallimento di alcune società che avevano gestito importanti strutture ricettive del vibonese.
Dei due - finiti entrambe ai domiciliari - il primo viene ritenuto essere un partecipe dell’associazione investigata, responsabile e referente della rete commerciale in Calabria e nel Lazio; il secondo referente di alcune strutture ricettizie operanti nella nostra regione, nelle diverse vesti di imprenditore, professionista, consulente del lavoro e depositario delle scritture contabili di società clienti dei consorzi oltre che procacciatore di clienti per questi ultimi.
Ma andiamo per ordine. Le indagini, svolte anche tramite di intercettazioni telefoniche e ambientali, accertamenti bancari, acquisizioni documentali, escussione di persone informate sui fatti e servizi di osservazione, fanno ritenere di aver scoperto un diffuso sistema di frodi fiscali, realizzato attraverso la creazione di consorzi di imprese che avrebbero avuto il solo scopo di fornire manodopera alle aziende clienti celandola sotto forma di falsi appalti di servizi.
Le investigazioni sono partire da una serie di controlli fiscali, che avrebbero fatto emergere i segnali di un presunto fenomeno illecito definito “organizzato e particolarmente diffuso”, specie tra le imprese che operano nel settore turistico-alberghiero di Sicilia, Calabria e Lazio.
Un sistema che avrebbe arrecato però un danno sia all’Erario, a causa dell'ingente evasione delle imposte dirette e dell’Iva e contributi previdenziali, sia per le aziende che operano sul mercato in modo corretto, quindi meno concorrenziali rispetto a quelle che si sarebbero avvantaggiate della presunta frode, che sarebbero state così in grado di praticare tariffe più convenienti in virtù dei conseguenti più elevati margini di guadagno.
LA SCHEMA RICORRENTE
Gli investigatori ipotizzano che questo meccanismo prevedesse uno schema operativo ricorrente. In primo luogo, la costituzione di entità giuridiche in forma di consorzi (con sede legale a Roma e Firenze) e società consorziate (oltre 26 susseguitesi nel tempo distribuite tra le province di Milano, Firenze, Roma, Catania e Messina), tutte senza una propria organizzazione, mezzi e senza l'assunzione di alcun rischio d'impresa, aventi di norma un ciclo di vita molto breve durante il quale avrebbero accumulato, senza onorarli, ingenti debiti tributari.
Questi soggetti giuridici, rappresentati legalmente da prestanome, spesso nullatenenti e senza competenze professionali adeguate al ruolo apparentemente rivestito, avrebbero operato come meri serbatoi di manodopera, nel senso che sarebbero stati utilizzati esclusivamente per assumere un numero elevatissimo di persone, per la maggior parte provenienti dalle aziende divenute clienti, per poi metterle a disposizione proprio di quest’ultime sotto forma di appalto di servizi fittizio.
In realtà, e come emergerebbe al momento dalle investigazioni, i lavoratori non avrebbero cambiato né sede lavorativa, né qualifica professionale, rimanendo, di fatto, alle dipendenze del datore di lavoro originario, per continuare a svolgere le proprie mansioni ordinari.
I VANTAGGI DEL SISTEMA
Lo scopo sarebbe stato dunque quello di esternalizzare, ma solo in apparenza, la forza lavoro, in modo da conseguire diversi vantaggi consistenti.
Ad esempio, le società clienti avrebbero ottenuto una maggiore flessibilità a fronte di una riduzione di costi sul lavoro, potendo modulare l’entità della manodopera in base alle esigenze del periodo e, al contempo, risparmiare sugli oneri retributivi, assicurativi, previdenziali e normativi connessi alle diverse tutele riconosciute ai lavoratori.
Il che sarebbe avvenuto per effetto del licenziamento dei dipendenti delle stesse aziende e della parallela assunzione in capo alle consorziate. Per di più, la stipula - solo formale - di un contratto di appalto avrebbe consentito alle stesse società di detrarre l’Iva applicata in fattura (definita “non genuina”) relativa ai “presunti servizi” erogati.
Dal canto loro, gli ideatori del “sistema consorzio”, si sarebbero avvantaggiati degli ingenti profitti derivanti dal mancato pagamento allo Stato dei debiti erariali (per imposte e contributi) maturati dal consorzio e dalle consorziate, neutralizzati attraverso compensazioni indebite con crediti Iva inesistenti scaturiti da un acquisto simulato di beni strumentali da società “cartiere”, in realtà costituite appositamente dal gruppo per emettere delle fatture false.
Quest’ultima operazione sarebbe stata essenziale nella filiera del sistema in quanto, beneficiando delle compensazioni con crediti inesistenti, le consorziate hanno potuto certificare al cliente finale di avere “correttamente” assolto agli obblighi di versamento, fornendo la certificazione di regolarità contributiva (dall’Inps o Inail competente per territorio) ovvero il modello Durc, il Documento Unico di Regolarità Contributiva.
Per gli inquirenti, pertanto, questo escamotage avrebbe infatti consentito di aggirare le disposizioni introdotte dal legislatore per contrastare il fenomeno delle somministrazione illecita di manodopera come, a esempio, le disposizioni che obbligano le imprese che ricorrono ad appalti, subappalti, affidamenti a soggetti consorziati caratterizzati da prevalente utilizzo di forza-lavoro, come nel caso di specie, a richiedere la certificazione della regolarità delle pagamento delle imposte e dei contributi.
UN GIRO DA QUASI 70 MILIONI
È stato stimato che, negli ultimi 5 anni, il giro di fatture “false” legato all’ipotizzato sistema di frode nel suo complesso sarebbe stato pari a oltre 56 milioni di euro di imponibile e oltre 13 milioni di Iva, garantendo profitti illeciti all’associazione per oltre 8 milioni di euro, la metà dei quali distribuita agli organizzatori sotto forma di compensi professionali, stipendi, rimborsi spese.
Le attività di indagine fanno ritenere che il centro decisionale di tutto il sistema sarebbe stato a Catania, presso lo studio di un commercialista, il 61enne Antonio Paladino (originario di Monza), e del suo collaboratore, il 47enne Gaetano Sanfilippo (di Gela), considerati i promotori e gli organizzatori del sodalizio criminale sebbene gli stessi non abbiano ricoperto alcun ruolo formale nei consorzi e nelle consorziate e nonostante il fatto che tali società avessero sede legale in diverse province italiane (Milano, Firenze, Roma, Messina e Catania), talvolta presso civici inesistenti o locali vuoti o in disuso.
Per la realizzazione di questo “disegno”, il professionista ed il suo collaboratore sarebbero stati coadiuvati da una serie di presunti partecipi all’associazione a delinquere e da altri collaboratori esterni ad essa, tra cui il 55enne cosentino, e due addette, originarie di Nicosia e Roma (di 42 e 56 anni), che si sarebbero invece occupate della gestione dei clienti appaltanti, degli adempimenti giuslavoristici riguardanti i lavoratori in carico alle consorziate affidatarie e dell’interlocuzione e gestione delle teste di legno messe a capo dei consorzi e delle consorziate in qualità di legali rappresentanti.
Gli altri presunti collaboratori, esterni alla compagine, sarebbero stati una serie di personaggi fedeli, in tutto nove, che sarebbero stati pronti ad assumere il ruolo di amministratore di diritto delle diverse società via via costituite, facendo da paravento all'attività svolta dagli indagati e informandoli anche nei casi di avvio di attività ispettive da parte della Guardia di finanza.
LE MISURE CAUTELARI
Sulla scorta di quanto acquisito dalle fiamme gialle del Nucleo Pef di Catania, il Gip del Tribunale locale, su proposta della Procura etnea, ha dunque ritenuto sussistente in capo agli indagati un grave quadro indiziario in ordine ai reati contestati disponendo il carcere nei confronti dei due presunti promotori dell’associazione a delinquere, già destinatari di un misura simile nel 2020 a seguito delle indagini per frode fiscale.
Per gli altri quattro soggetti considerati partecipi all’associazione a delinquere sono stati disposti invece i domiciliari; il divieto per un anno di esercitare uffici direttivi di persone giuridiche è stato deciso per i restanti nove, ritenuti più stretti collaboratori dei promotori.
Il Giudice ha poi disposti il sequestro di 28 società, ritenuti esser state utilizzate per realizzare il sistema di frode, oltre che di disponibilità finanziarie, di beni mobili ed immobili riconducibili agli indagati per un valore complessivo di oltre 8,2 milioni di euro.
Nel corso dell’esecuzione dei provvedimenti si è parallelamente proceduto alla perquisizione locale e informatica nei confronti dei rappresentanti legali delle aziende “clienti” che appaiono aver usufruito maggiormente della somministrazione illecita di manodopera, così da raccogliere ulteriori elementi indiziari che possano confermare l’ipotesi di reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e della sussistenza di responsabilità amministrativa, in capo alle società da loro amministrate per i vantaggi che avrebbero ottenuto dalla presunta frode.