Lavoro e famiglia: donne sacrificabili e sacrificate, l’Italia non è un paese per mamme

Calabria Cronaca

“Non è un Paese per mamme. Le difficoltà della donna in Italia a diventare madre”: non poteva avere titolo diverso il focus pubblicato proprio in occasione della festa della mamma, che si celebra oggi, 11 maggio, e che mette in evidenza le problematicità che impediscono alla donna di fare figli con tutte le conseguenze di natura socioeconomica e demografica che ne conseguono.

Il raport è a cura dell’Anmil, che con questo ha inteso celebrare la ricorrenza. È stata una iniziatica del Gruppo Donne dell’Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro, composto da Stefania Benedetti, Michelina Ferrazzo, Antonina Lipari, Barbara Longhi e Graziella Nori, che ha potuto contare, nelle realizzazione, sul lavoro del Coordinatore dei Servizi Statistico-Informativi, il Prof. Franco D’Amico, con la Partnership anche della Tgr Rai.

Il “gelo demografico”

L’approfondimento vuole mettere in luce come, nel contesto del nostro Paese, le donne lavoratrici e madri risultano in media le più sacrificabili e sacrificate a causa del peso della cura della casa e della famiglia che ricadono quasi interamente sulle loro spalle.

Il Belpaese, non presentando un adeguato sistema di supporto finanziario alle famiglie e di sevizi di sostegno alla maternità, tra l’altro, è andato incontro a quello che in termini tecnici viene definito “gelo demografico”: le donne sono state indotte a fare sempre meno figli e questo ha determinato un disequilibrio demografico tra nati e morti.

Il peso della famiglia

“Sono situazioni complesse quelle in cui si vengono a trovare oggi le mamme lavoratrici, che si aggravano quando queste si trovano a doversi fare carico anche di anziani non autosufficienti e/o di persone affette da gravi disabilità e che, come equilibriste, con estrema difficoltà si ritrovano a dovere bilanciare il proprio ruolo professionale con le responsabilità familiari”, dichiara il Presidente Nazionale Anmil, Antonio Di Bella.

“Più aiuti anche a livello istituzionale, equità salariale, meno stereotipi e maggiori reti di sostegno, sono queste le istanze dell’ANMIL a supporto del superamento delle discriminazioni di genere e del vivere serenamente la realtà di lavoratrici, di madri e di donne più in generale. In questa giornata, voglio ricordare con gratitudine e affetto tutte le mamme e tutte le donne che, pur non avendo generato, sanno amare ed accogliere chi è nel bisogno”, conclude il Presidente.

Il più bel lavoro del mondo

“È un dolore che non trova pace, è una ferita che non può rimarginarsi quella di una madre che prova il lutto di un figlio non concepito per trovare una morte ingiusta sul lavoro: è questo un altro gravoso temaafferma la Vicepresidente nazionale e rappresentante del Gruppo Donne associativo, Graziella Nori - che affronta quotidianamente la nostra Associazione, se pensiamo che ogni giorno c’è una mamma che piange la scomparsa di un figlio rimasto vittima di un incidente lavorativo: in media muore quotidianamente un lavoratore di età inferiore ai 45 anni (che si presume abbia la madre ancora in vita, data anche la grande longevità delle donne)”. “Tutelare la serenità della vita affettiva familiare, sociale e lavorativa delle donne e soccorrerle prontamente laddove questa è stata spezzata da un evento infausto consumato sul lavoro, è tra i contributi che l’Anmil vuole dare alla società per custodire il più impegnativo, silenzioso e bel lavoro al mondo, quello della mamma”, conclude Nori.


Il report dell'Anmil


La crisi delle “culle vuote”

Venendo al report, secondo tutto parte dal 2014: fino a quell’anno il numero annuo delle nascite in Italia si era attestato sempre al di sopra delle 500milaunità, un numero non esaltante ma comunque quasi sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio demografico tra nati e morti, con il supporto decisivo della componente immigratoria.

Nel 2014 dunque è iniziata la crisi delle “culle vuote”, con il numero di nati che abbatte il muro delle 500mila unità per diminuire progressivamente fino al crollo del 2020, l’anno orribile della pandemia.

In quell’anno si contarono circa 404mia nascite, scese a 400mila nell’anno successivo, per poi abbattere nel 2022, per la prima volta dall’unità d’Italia, un altro muro, quello dei 400 mila nati, segnando il record storico negativo con 392.600 nascite.

Infine, il 31 marzo scorso, l’Istat ha pubblicato gli indicatori demografici relativi al 2024, che certificano il progredire dell’andamento negativo della natalità nel nostro Paese: il numero delle nascite è ulteriormente sceso a circa 370 mila unità, contro un numero di decessi pari a 651mila.

Il contributo dell’immigrazione

Di conseguenza la popolazione residente in Italia è diminuita per il decimo anno consecutivo, segnando un calo, rispetto al 2023, di “solo” 37.000 persone, grazie al contributo positivo dell’immigrazione, e scendendo agli attuali 58,9 milioni, a conferma di un trend decrescente divenuto ormai strutturale e, secondo le previsioni più pessimistiche, praticamente irreversibile.

A determinare una tale situazione contribuiscono vari fattori: nascite sempre più rare, famiglie sempre più piccole e invecchiamento costante della popolazione.

Il tasso di fecondità

Uno dei dati più preoccupanti è quello sulla fecondità: secondo i dati Istat, nel 2024 in media ogni donna in Italia era madre di 1,18 figli, un numero che rappresenta il minimo storico dal dopoguerra ad oggi. Si tenga conto che il “tasso di fecondità” che, in questo caso rappresenta il “tasso di sostituzione standard” (che consente, cioè, di rimpiazzare il numero dei morti), è pari a 2,1, il che significa che ogni donna dovrebbe mettere al mondo almeno 2,1 figli per poter garantire un corretto ricambio generazionale (tanto per fare un esempio, a livello globale il Niger è il Paese con il tasso di fecondità più alto, con 7,1 nascite medie per donna).

Ma allo stato delle cose, per recuperare tutto il degrado demografico accumulatosi nel tempo, nuovi modelli matematici, elaborati da tecnici dell’Università di Shizuoka in Giappone, spostano la soglia del tasso di fertilità a 2,7 figli per donna perché sia sufficiente per evitare l’estinzione a lungo termine di una determinata popolazione, specialmente se piccola.

Figli sempre più tardi

In Italia, l’età media in cui la donna diventa madre continua ad aumentare e ha raggiunto oggi i 32,6 anni: questo significa che le donne fanno figli molto più tardi e in numero sempre più ridotto, riducendo peraltro anche il periodo residuo di fertilità.

Né può consolare il fatto che, allargando lo sguardo all'Europa, la situazione italiana non rappresenta la sola eccezione: un profilo demografico abbastanza simile al nostro si riscontra anche in altri Paesi europei, tra cui la Spagna.

Gli scenari poco rassicuranti

Il trend in atto nel nostro Paese, peraltro, lascia prospettare scenari futuri poco rassicuranti: secondo gli esperti dell’ISTAT la popolazione residente è destinata a scendere dai circa 58,9 milioni attuali a 57,9 nel 2030, a 54,2 nel 2050 e a 47,7 nel 2070.

Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà dal tre a due attuale, a circa uno a uno nel 2050, con problemi di ordine socioeconomico e soprattutto pensionistico facilmente immaginabili.

Entro il 2041, inoltre, soltanto una famiglia su quattro avrà almeno un figlio. Ma perché, dunque, le donne italiane non fanno più figli?

Perché non si fanno figli?

La motivazione principale consiste fondamentalmente nel fatto che in Italia la maternità ha un effetto molto negativo sul lavoro delle donne di età fertile: tra i 25 e i 49 anni - secondo i dati Istat - è occupato solo il 53,9% delle donne che hanno uno o più figli, a fronte del 73,9% delle donne della stessa fascia di età ma senza figli, con un differenziale di 20 punti percentuali. Lo stesso tasso di occupazione riferito agli uomini della stessa fascia di età e che pure hanno figli raggiunge invece quasi il 90%.

Il peso della cura della casa e della famiglia ricade, come noto, quasi sempre interamente sulle spalle della donna e, inoltre, si aggrava ulteriormente se in famiglia c’è la presenza di un anziano non autosufficiente e/o di una persona affetta da gravi disabilità che richiedono assistenza continua.

Da mamma a disoccupata

Il rapporto tra la nascita di un figlio e le dimissioni dal lavoro è fortemente sbilanciato a sfavore del genere femminile: quasi il 70% delle donne occupate che si licenziano dal lavoro lo fa per la difficoltà di conciliare lo stesso con la cura del neonato, contro appena il 7,5% degli uomini.

Le difficoltà che la donna incontra nel conciliare i tempi di lavoro con quelli di cura della casa e della famiglia sono, dunque, la causa principale dell’abbandono del posto di lavoro per oltre due lavoratrici su tre. Solo per il 17% la causa dell’abbandono è l’insoddisfazione per il tipo di lavoro svolto, cioè per sua libera scelta.

Il risultato più evidente è che, nonostante i notevoli progressi registrati nel mondo del lavoro dalla donna negli ultimi decenni, il tasso di occupazione femminile italiano (relativo a donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni) rilevato da Eurostat si posiziona quasi 15 punti al di sotto di quello medio dell’Unione Europea.

Tra pregiudizi e steriotipi

Questo si verifica in parte per questioni di natura culturale, legati agli assurdi e anacronistici pregiudizi e stereotipi, che portano alle ben note discriminazioni di genere, ancora molto diffuse nella società italiana (non solo nelle regioni meridionali), ma soprattutto per la scarsità di servizi di sostegno alla maternità e alla famiglia da parte delle Istituzioni, come asili nido, servizi di baby-sitting e agevolazioni sul lavoro sia in termini di elasticità oraria che in termini salariali.

In questo senso i dati economici di Eurostat sono emblematici: nel nostro Paese appena l’1,4% del PIL viene destinato a sostegno di famiglia e maternità, contro il 2,1% della media europea e il 3,7% record della Danimarca.

I casi di Francia e Finlandia

È evidente che il nostro Paese, per invertire questo trend negativo deve necessariamente adottare misure straordinarie che incentivino le donne a procreare, come ha fatto, ad esempio, la Francia, l’unico Stato dell’Unione europea che dal 2000 a oggi ha mantenuto stabilmente il tasso di fertilità vicino alla soglia dei 2 figli per donna, avendo messo in piedi un articolato sistema di sostegno finanziario alle famiglie.

O come la Finlandia che ha adottato una delle riforme sul congedo parentale più innovative d’Europa, con quote “simmetriche” per ciascuno dei due genitori che possono essere facilmente trasferite da uno all’altro in funzione delle esigenze necessarie per una tranquilla gestione della vita familiare.

Un circuito perverso

In Italia, invece, si è consolidato un circuito perverso per cui le donne che vogliono avere un figlio si trovano di fronte a una scelta molto difficile, che spesso le obbliga a rinunciare al lavoro con conseguenze negative non solo sul bilancio economico familiare, ma anche su quello demografico nazionale.

Sempre secondo l’Istat, il calo del tasso di occupazione femminile combinato a quello delle nascite è destinato, in un futuro non troppo lontano, a disegnare, in assenza di interventi massicci e tempestivi, una struttura socioeconomica del nostro Paese sempre più precaria.

Gli infortuni sul lavoro

Ma al di là degli aspetti demografici esistono situazioni che dal punto di vista emotivo rappresentano per la donna-madre la più grande tragedia che si possa immaginare: la perdita di un figlio a seguito di un incidente sul lavoro.

Secondo le statistiche Inail, riferite all’ultimo quinquennio consolidato (2019-2023), in media ogni anno in Italia muoiono per infortuni sul lavoro 373 lavoratori di età inferiore ai 45 anni, che si presume abbiano quasi tutti la madre ancora in vita, data anche la grande longevità delle donne; non crediamo, quindi, di essere lontani dal vero affermando che praticamente ogni giorno nel Belpaese c’è una mamma che piange la morte di un figlio rimasto vittima di un incidente sul lavoro.