La ‘ndrangheta attiva anche in Abruzzo, maxi blitz a Chieti: una trentina gli indagati
15 persone sono finite in arresto (6 delle quali raggiunte dal provvedimento cautelare in carcere), nove ai domiciliari e altrettante sottoposte all’obbligo di dimora o di interdizione ad esercitare attività imprenditoriali o rivestire cariche societarie). Altre 8, infine, sono le indagate in stato di libertà
Questo l’esito dell’operazione, denominata Design, condotta dai carabinieri di Chiedi nei confronti di altrettanti soggetti che farebbero parte di un’organizzazione criminale della ‘ndrangheta calabrese attiva sul territorio abruzzese.
Sequestrati, inoltre, veicoli, attività commerciali, società e quote societarie di un complesso turistico in Calabria per un valore complessivo di circa 10 milioni di euro; e circa 10 kg di marijuana.
I DESTINATARI dei provvedimenti - emessi nei giorni scorsi dal Gip di L'Aquila, Giuseppe Romano Gargarella, su richiesta del Pm Antonietta Picardi - vanno a raggiungere alcuni dei presunti promotori della “struttura”, tutti originari della Calabria, e che sarebbero collegati strettamente, sia per parentela diretta o indiretta che per “fitte reti di scambio criminale”, con le più note famiglie della cosiddetta "Locale di Africo", nel reggino.
Gli inquirenti contestano i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, con l'aggravante di essere associazione armata, l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, il tentato omicidio, la detenzione illegale di armi da fuoco, l’estorsione, l’usura, l’incendio di esercizio pubblico e di autovettura e l’intestazione fittizia di beni, con l'aggravante di essersi avvalsi dei metodi mafiosi.
Le indagini sono state eseguite tra il 2014 e il 2016 dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Chieti sotto il coordinamento dalla Direzione Distrettuale Antimafia di L'Aquila.
Secondo gli inquirenti, la “cellula” abruzzese della ‘ndrangheta, che avrebbe avuto a capo Simone Cuppari, 36enne di origini calabresi da tempo residente sulla costa chietina, avrebbe consolidato un efficiente canale di approvvigionamento di grossi quantitativi di droga, in maggior parte di cocaina, da un analogo gruppo di affiliati alla 'ndrangheta in Lombardia, che a loro volta sarebbero riconducibili alle famiglie della “Locale di Platì”.
Lo stupefacente, che sarebbe arrivato con cadenza periodica, veniva poi distribuito sul mercato abruzzese, nelle provincie di Chieti e Pescara e i proventi conseguenti reimpiegati nell'acquisizione di attività commerciali nel settore della raccolta di scommesse elettroniche e della ristorazione oltre che nell’usura ai danni di piccoli commercianti ed imprenditori del posto che, in difficoltà economiche, avrebbero dovuto pagate interessi esorbitanti: in un caso, addirittura, un prestito di 20 mila euro aveva visto la vittima restituirne 40 mila dopo solo un mese, arrivando in pochi mesi a sborsare la cifra di oltre 220 mila euro. Per ottenere quanto “dovuto” non sarebbe mancato il ricorso a minacce, o all’incendio di negozi e di auto.
I profitti sarebbero stati reimpiegati in parte in attività imprenditoriali in Calabria, come per esempio nel commercio di auto o nella realizzazione di villaggi turistici di grandi dimensioni.