Un territorio ‘ostaggio’ della ‘ndrangheta. 37 arresti: schiaffo ai clan e alle nuove leve

Reggio Calabria Cronaca

Per gli inquirenti si tratta di un importante passo avanti nell’azione di contrasto alla ‘ndrangheta, in particolare quella che opera nel mandamento jonico della provincia reggina.

Un controllo asfissiante del territorio, una longa manus criminale capace di soggiogare non solo amministrazioni pubbliche ma anche di incutere un senso di terrore tra semplici cittadini e, soprattutto, tra operatori economici della zona.

Imprenditori costretti a dover anche rifiutare appalti pubblici, affidatigli secondo la legge, per non spazientire le cosche locali nel loro progetto di controllo monopolistico dell’economia e della vita quotidiana.

E poi l’irrompere delle nuove leve, i Cumps, abbreviazione anche un po’ simpatica - apparentemente - del più classico cumpari: ritenendosi dominatori incontrastati del territorio non avrebbero avuto alcuna esitazione ad usare azioni eclatanti pur di confermare il loro predominio, potendo contare anche su armi ad elevato potenziale offensivo.

È questo lo spaccato che verrebbe fuori dall’operazione “Cumps-Banco Nuovo”, scattata all’alba di stamani e che ha coinvolto un cinquantina di persone accusate di vari reati aggravati dalle modalità mafiose: in 31 sono finiti in carcere, in sei ai domiciliari e in nove raggiunti da un obbligo di dimora.

Secondo la tesi degli inquirenti farebbero parte, appunto, di un’organizzazione criminale attiva sul versante jonico reggino - tra Africo Nuovo, Motticella, Bruzzano Zeffirio, Brancaleone - gestendo l’assegnazione dei subappalti, delle forniture di mezzi e materiali per poi suddividerne equamente i proventi tra le famiglie di ‘ndrangheta.

L’inchiesta della Dda avrebbe svelato non solo l’operatività di diverse articolazioni della ‘ndrangheta in quei centri, ma anche i nuovi assetti organizzativi e i ruoli rivestiti dai presunti affiliati, rimodellati all’indomani della pace raggiunta dalle cosche dopo la sanguinosa faida di Africo-Motticella, che aveva visto affermarsi i gruppi “Palamara-Scriva” e “Mollica-Morabito”.

Una riorganizzazione, in particolare a Brancaleone, che secondo gli inquirenti avrebbe dato origine ad un “Banco nuovo”, ovvero una nuova locale caratterizzata da una “spiccata tendenza degli affiliati a controllare i lavori e le opere pubbliche del comune.

I SEGMENTI D’INDAGINE

Nel procedimento sono confluiti gli esiti di due diversi ma convergenti segmenti di attività d’indagine svolte con riferimento alla ‘ndrangheta radicata ad Africo Nuovo, Motticella, Bruzzano Zeffirio, Brancaleone e nelle zone limitrofe.

In particolare, i Carabinieri di Locri hanno curato le indagini scaturite dall’omicidio del ristoratore di Brancaleone e proprietario del ristorante “Venezia”, Luciano Criseo, avvenuto il 28 marzo 2009, con le quali è stato possibile accertare una massiva infiltrazione della ‘ndrangheta nel settore degli appalti pubblici ed il potere di condizionamento mafioso degli organi istituzionali pubblici (la cosiddetta informativa “Venezia”).

Il secondo segmento investigativo è costituito dalle attività condotte dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria e dal Commissariato di Condofuri, da cui sono emersi dei reati in materia di armi e di stupefacenti da parte di un gruppo criminoso di nuova generazione creatosi a Brancaleone (ovvero la nascente cellula denominata “Cumps” dai suoi stessi appartenenti), un lembo di territorio che è sempre stato considerato sotto il controllo del locale di Africo (informativa “Cumps”).

DALLA PACE MAFIOSA AL CONTROLLO DEGLI APPALTI PUBBLICI

Fin dall’avvio delle investigazioni sarebbe emersa l’appartenenza degli indagati alla ‘ndrangheta con un particolare riferimento ai nuovi assetti organizzativi e ai ruoli rivestiti dai singoli affiliati, rimodulati a seguito della “pace” che si era venuta a creare tra le diverse cosche dopo la sanguinosa faida di Africo-Motticella.

Una tendenza alla rimodulazione degli assetti che gli investigatori definiscono “funzionale al controllo” degli appalti pubblici nell’area di influenza e che troverebbe conferma nelle indagini che hanno interessato proprio il territorio di Brancaleone, documentando come il processo di riorganizzazione abbia dato origine, appunto, ad un “Banco nuovo”, con una nuova locale e la conseguente ridefinizione dei ruoli dei singoli affiliati.

Già nell’operazione “Crimine si aveva modo di apprendere come: “… Le complessive acquisizioni investigative consentono di affermare che il termine ‘fare il banco nuovo’ è sinonimo di ‘fare un nuovo locale’ e, di conseguenza, costituire al suo interno una ‘nuova società’ con tanto di ‘cariche’…”.

In pratica si ritiene di aver accertato una persistente intrusione della ‘ndrangheta nella gestione dei lavori e delle opere pubbliche, sia per quanto concerne il movimento terra, il trasporto e la fornitura di materiali inerti, sia nella fornitura di mezzi e di manodopera, oltre che al pesante condizionamento degli organi istituzionali pubblici.

Il lavoro investigativo della Polizia e dei Carabinieri ha trovato un’armonica convergenza nella scoperta di elementi in ordine al gruppo che farebbe riferimento, tra gli altri, a Nicola Falcomatà e Paolo Benavoli.

Secondo gli inquirenti, dunque, il risultato delle due indagini consentirebbe di affermare, da una parte, l’esistenza di una predominanza delle famiglie di Africo e Bruzzano sul territorio di Brancaleone e, dall’altra, l’esigenza di creare gruppi autonomi di famiglie che, sempre nell’ottica della visione unitaria, abbiano libertà decisionale e operativa sul proprio territorio.

GLI AFFILIATI AL “BANCO NUOVO”: IL RUOLO DEI FRATELLI ALATI

Al “Banco nuovo” di Brancaleone sarebbero così affiliati i fratelli Alati (Annunziato, Pietro e Giuseppe) a cui si contesta un ruolo di “assoluto rilievo” nel condizionamento delle scelte dell’amministrazione comunale.

Figura di spicco, sempre secondo la tesi egli inquirenti, sarebbe quella di Annunziato Alati, gestore di fatto della ditta Tripodi Veneranda e titolare di un’impresa individuale di movimento terra, pulizia strade ed aree verdi, acquedotti e fognature.

L’ipotesi è che attraverso continue e ripetute minacce abbia "sbaragliato sistematicamente la concorrenza" di altri imprenditori del settore, monopolizzando il mercato e aggiudicandosi ogni commessa pubblica.

In questa direzione sono confluiti anche gli esiti di altre investigazioni delegate dalla Distrettuale al Nucleo Investigativo dei Carabinieri reggini (nel contesto dell’operazione “Ecosistema” che aveva toccato anche l’amministrazione comunale di Brancaleone) ed al Commissariato di Bovalino; risultati che confermerebbero una “ingombrante presenza del gruppo Alati nel contesto criminale di Brancaleone e le pressioni sull’amministrazione comunale di quel centro”, affermano gli inquirenti.

IL COMUNE DI BRANCALEONE “IN OSTAGGIO” DEGLI ALATI?

Le indagini restituirebbero "impietosamente" l’immagine di un Comune, quello di Brancaleone appunto, che di fatto sarebbe stato "ostaggio" dei componenti della famiglia Alati e dei loro metodi definiti “tipicamente mafiosi”.

Gli investigatori affermano che sarebbe stata “ben nota anche agli stessi amministratori comunali la forte influenza di Pietro Alati, fratello di Annunziato e impiegato presso l’ufficio tecnico del Comune …, aduso a condizionare, con metodi tipicamente mafiosi, l’affidamento dei lavori in somma urgenza”.

I motivi della mancata denuncia sarebbero da ricercare in un presunto sostegno politico che l’amministrazione comunale in carica, nel 2014, reduce dal secondo mandato consecutivo, avrebbe avuto proprio dagli Alati poi ricompensati, soprattutto nel quinquennio precedente, con l’affidamento dei lavori in somma urgenza.

Non sarebbero però mancati i tentativi di resistenza degli amministratori, come l’adozione di meccanismi di rotazione tra gli imprenditori destinatari delle commesse comunali: buoni propositi, però, che si sarebbero infranti contro il clima di terrore “imposto dagli indagati che, ricorrendo a metodi intimidatori tipicamente mafiosi” avrebbero costretto gli altri imprenditori del settore a rifiutare i lavori che gli si proponevano.

L’IRRUZIONE NEL CONSIGLIO COMUNALE E LE MINACCE

Di tutte le numerose condotte intimidatorie documentate, un valore particolarmente significativo avrebbero gli eventi che risalgono al 10 luglio 2014. Allora, sostengono sempre gli investigatori, i fratelli Annunziato e Giuseppe Alati sarebbero arrivati nel corso di una seduta della Giunta Comunale di Brancaleone per minacciare apertamente il sindaco e gli amministratori presenti, intimandogli di assegnare i lavori di manutenzione idrica ad Annunziato, in esclusiva, senza alcuna rotazione tra le ditte e non dando corso alla gara ad evidenza pubblica già indetta.

LO SFRUTTAMENTO “PARASSITARIO” E LA SPARTIZIONE DEGLI APPALTI

Se da una parte l’interesse delle cosche per gli appalti pubblici avrebbe condizionato la rimodulazione degli assetti territoriali, dall’altra la consapevolezza del maggior rischio che potesse derivare da scontri armati avrebbe generato, anche nei territori di Africo Nuovo, Brancaleone e Bruzzano Zeffirio, nuovi accordi per lo sfruttamento definito “parassitario.

I Carabinieri avrebbero documentato, in particolare, l’esistenza di intese specifiche per la spartizione degli appalti, riservando quelli superiori alla soglia di 140-150mila euro esclusivamente alla locale di Africo, e quelli al di sotto che sarebbero rimasti appannaggio delle cosche del territorio, senza alcuna ingerenza africota.

Proprio in ragione di questi accordi, l’esecuzione di diverse opere pubbliche - sia per quanto concerne il movimento terra, il trasporto e fornitura di inerti, sia per la fornitura di mezzi e manodopera nell’area di riferimento - sarebbe stata portata avanti senza che la ditta appaltatrice o le ditte interessate a qualunque titolo ai lavori avessero patito qualche danneggiamento.

I LAVORI AL CIMITERO E ALLA CASERMA DEI CARABINIERI

Non sarebbero mancate, tuttavia, delle eccezioni alla regola, determinate essenzialmente dall’avidità dei singoli affiliati: in particolare, per l’appalto che prevedeva il consolidamento del cimitero di Brancaleone, dove nonostante l’importo dell’opera fosse decisamente inferiore a quello della soglia stabilita, la cosca africese sarebbe riuscita ad inserirsi nella gestione indiretta.

Oppure nei piccoli lavori di manutenzione della caserma dei Carabinieri, per i quali accordi preventivi ed orientati dagli affiliati ne avrebbero determinato l’aggiudicazione a favore di un'impresa compiacente, che avrebbe lasciato eseguire l’opera a “soggetti indicati canalizzando la remunerazione dell’appalto all’affiliato adoperatosi per l’intermediazione.

Peraltro, le conversazioni registrate dai militari confermerebbero come l’infiltrazione “sistematica” negli appalti prescindesse dalla stazione appaltante di riferimento e dal pur pesante controllo intimidatorio degli organi amministrativi istituzionali.

Ne sarebbero riprova, in particolare, le evidenze relative ai lavori di pulizia della strada provinciale che collega la frazione di Marinella a Bruzzano Zeffirio: benché l’opera prevedesse una pulizia dei bordi per tutto il tratto, gli operai dell’impresa aggiudicataria, una volta entrati nel comune di Bruzzano per proseguire i lavori, sarebbero stati avvicinati intimandogli di non “sconfinare e non proseguire in quella zona poiché di pertinenza di un’altra cosca.

Analoga situazione sarebbe stata riscontrata dai Carabinieri di Bianco nel 2013, sulla conduzione dei lavori di ristrutturazione della Chiesa del “Santissimo Salvatore” di Motticella; una circostanza in cui l’imprenditore incaricato dell’opera sarebbe stato anch’egli avvicinato da affiliati alle ‘ndrine di Bruzzano che gli avrebbero imposto le forniture dei materiali ed estorto denaro.

FALCOMATÀ, BENAVOLI E L’INSOFFERENZA PER GLI AFRICOTI

Nella parte curata dalla Polizia di Stato, le indagini hanno consentito di individuare i presunti appartenenti al gruppo criminoso riconducibile a Falcomatà ed a Benavoli come soggetti ritenuti legati alla figura di Saverio Mollica (59 anni), che dagli atti dell’inchiesta “Il Crimine”, pare avesse avuto l’intenzione di acquisire la completa egemonia dell’intero comune di Bruzzano Zeffirio.

Nelle conversazioni intercettate nel veicolo di Filippo Palamara, Falcomatà e Benavoli sarebbero stati “dipinti” come soggetti che manifestavano insofferenza per gli africoti, palesando l’intendimento di affermare la loro supremazia sul territorio di Brancaleone.

Contemporaneamente, un altro filone della stessa indagine avrebbe fornito una chiave di lettura alla recrudescenza dei fenomeni criminali che avevano caratterizzato la zona di Brancaleone in quel periodo, portando a collegare gli stessi alla costante presenza in quel comune di presunti appartenenti alla criminalità organizzata africese, che si sarebbero stabiliti lì “inquinando il tessuto sociale della cittadina jonica, anche attraverso l’acquisizione di attività economiche sane e floride”.

Il riferimento è ai fratelli Morabito - Bartolo, Giuseppe - e Giovanni di Rocco. Gli investigatori sostengono che “contando sull’appartenenza al casato criminale dei Morabito di Africoil cui indiscusso capo bastone nel tempo sarebbe stato Giuseppe Morabito (cl. 1934), “nonché sul suo vissuto criminale” avrebbero riunito intorno a sé “un nutrito e coeso gruppo di giovani, per lo più residenti in contrada Razzà di Brancaleone o vie limitrofe alla stessa, le cui gesta e la cui struttura organizzativa appaiono aver da tempo superato la fase embrionale della costituzione di un’autonoma cosca”

Ad attestare la continuità nel tempo dei rapporti tra questi personaggi sarebbero i risultati dell’attività d’indagine che avrebbe poi permesso di accertare l’esistenza di un sodalizio strutturato nella cui disponibilità rientrava un appartamento al piano terra del complesso residenziale “San Michele”, sempre a Brancaleone, dove in particolare Bartolo Morabito incontrava Rocco Falcomatà ed i figli Alessio e Nicola, Vincenzo Toscano e Francesco Patea.

LA SANTA BARBARA SCOPERTA DALLA POLIZIA

Le indagini eseguite poi dagli uomini del Commissariato di Condofuri portarono, il 18 febbraio del 2011, a ritrovare una vera e propria “Santa Barbara”, composta da una considerevole quantità di armi clandestine, tra le quali quattro pistole semiautomatiche, di cui una da guerra con tanto di silenziatore, un fucile a canne mozze, parecchio munizionamento, una consistente quantità di polvere da sparo, e un tecnologico set per ricaricare le munizioni.

Allora vennero arrestati due componenti dei Benavoli, il padre Giuseppe ed il figlio Fortunato. Ai due, da lì a qualche giorno, si aggiunse anche un altro dei figli, Paolo, che si costituì spontaneamente, a carico del quale sarebbero stati poi raccolti altri elementi tali da ritenerlo intraneo al gruppo di Brancaleone.

Secondo gli investigatori, infatti, sarebbe stato alla ricerca di una sua autonomia operativa ed “identità criminale” proprio a Brancaleone, fortificata grazie ai rapporti con gli africesi e in particolare con Bartolo Morabito ed i suoi fratelli.

In questo caso le indagini avrebbero consentito di raccogliere altri elementi a carico di Nicola ed Alessio Falcomatà: in concorso con Paolo e Giuseppe Benavoli, avrebbero detenuto le armi a canne scoperte, clandestine perché prive in tutto o in parte della matricola identificativa.

LA DISPONSIBILITÀ DELLE ARMI E IL GRUPPO DEI ‘CUMPS’

Il dato secondo cui gli indagini disponessero di altre armi emergerebbe dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Maurizio Maviglia: quest’ultimo raccontò di essere a conoscenza del fatto che le stesse fossero rimaste ai “Cumps” (una derivazione del più classico termine di “compari”), essendo, peraltro, a lui noto che il gruppetto di Brancaleone ne avesse disponibilità.

Nelle sue dichiarazioni, Maviglia non si è limitato a parlare di un gruppo delinquenziale stabile ed organizzato, ma ha tirato in ballo addirittura lo stesso Giuseppe Benavoli, padre di Paolo, a suo dire titolare nella scala gerarchica del locale di “ndrangheta”, facente capo a Saverio Mollica, del ruolo di santista”, insieme al figlio Paolo, che invece nella stessa consorteria avrebbe avuto la dote di “malandrino”, e sarebbe collegato con Giovanni Morabito, fratello di Bartolo, che avrebbero avuto diversi interessi nel territorio di Brancaleone.

Vi sono difatti varie conversazioni da cui si intuirebbe che più persone si sarebbero rivolte a Nicola Falcomatà per ottenere protezione e "giustizia" rispetto a dei reati patiti e che sarebbero stati posti in essere da esponenti della comunità nomade.

In questo contesto, Nicola Falcomatà, parlando con un nomade di nome Patrizio, gli avrebbe rivolto delle gravi e pesanti minacce, manifestandogli di essere determinato a compiere anche gesti di estrema violenza nei confronti degli autori del reato, come spararli e gettarli in un pozzo per farne sparire i cadaveri.

In alcuni casi impossibile dal momento che una buona parte dei cittadini di Brancaleone avrebbe dimostrato di preferire di rivolgersi ai Cumps”, piuttosto che denunciare i fatti.

Dall’ascolto delle conversazioni è stato possibile individuare, poi, specifici reati in materia di armi pronte all’uso e ad essere usate quando uno degli associati ne avesse avuto bisogno, anche temporaneamente.

IL BUSINESS DEGLI STUPEFACENTI

Sempre nella parte di indagine curata dalla Polizia è stata evidenziata anche una articolata attività nel campo degli stupefacenti, riconducibile sempre ai “Cumps”.

Le indagini metterebbero in risalto i presunti ruoli di soggetti che nel comprensorio brancaleonese avrebbero avviato l’attività del traffico di droga che, per una parte, avveniva in Sicilia ed a Bagnara Calabra. Le investigazioni, infatti, si sono sviluppate attraverso una intensa e proficua attività tecnica, nel corso della quale gli agenti hanno avuto modo di delineare degli specifici episodi da cui sarebbero emersi riferimenti espliciti allo spaccio di stupefacenti.

Gli spacciatori, ad esempio, avrebbero concordato appuntamenti con i loro clienti (e consumatori) adottando termini criptici, apparentemente illogici ma che in realtà avevano un loro specificato significato.

Gli esiti di questa parte di indagine, considerati nel loro complesso, hanno permesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di contestare il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, anche qui con l’individuazione di ruoli specifici per ciascuno dei presunti sodali.

È stata poi ritenuta sussistente l’aggravante mafiosa in base al fatto che l’attività, che avveniva in prevalenza nei territori di Africo e Brancaleone, avrebbe visto operativi e attivi promotori molti dei soggetti indiziati di far parte della ‘ndrangheta. Il settore del traffico di stupefacenti, insomma, sarebbe stato uno degli ambiti privilegiati del programma criminoso della cosca, cosa anche indicata dal collaboratore Maurizio Maviglia e riscontrata dagli elementi di indagine raccolti nel procedimento di oggi.

GLI INDAGATI

Sono esattamente 46 i soggetti coinvolti nell’operazione di oggi: 31 quelli finiti in carcere, sei ai domiciliari e in nove sottoposti all’obbligo di dimora. Per gli inquirenti farebbero parte di un’organizzazione operante nel versante jonico della provincia reggina, che si sarebbe occupata principalmente di gestire l’assegnazione dei subappalti, forniture di mezzi e materiali per poi suddividere equamente i proventi tra le famiglie di ‘ndrangheta.

IN CARCERE: Annunziato Alati, nato a Brancaleone (RC) il 05.07.1971; Giuseppe Alati, nato a Brancaleone (RC) il 20.09.1962; Pietro Alati, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 19.12.1975; Giuseppe Benavoli, nato a Brancaleone (RC) il 07.07.1956; Paolo Benavoli, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 14.12.1989; Alessio Falcomatà nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 03.03.1992; Nicola Falcomatà, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 01.04.1988; Massimo Emiliano Ferraro, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 05.07.1976; Cosimo Forgione, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 29.07.1984; Giuseppe Forgione, nato a Sinopoli (RC) il 06.03.1951; Vincenzo Freno, nato a Brancaleone (RC) il 20.07.1962; Francesco Gligora, nato a Locri (RC) il 20.05.1972; Pasquale Lombardo nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 12.12.1971; Daniele Manti, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 10.03.1988; Giuseppe Morabito, nato a Locri (RC) il 16.12.1978; Carmelo Morabito, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 13.09.1963; Natale Morabito, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 18.11.1965; Pasquale Morabito, nato a Bova Marina (RC) il 16.04.1954; Salvatore Morabito, nato ad Africo (RC) il 17.06.1976; Daniele Nucera, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 01.01.1988; Filippo Palamara, nato a Brancaleone (RC) il 01.12.1962; Giuseppe Palamara, nato ad Africo (RC) il 19.03.1968; Salvatore Palamara, nato a Bova Marina (RC) il 31.08.1963; Francesco Patea, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 14.04.1989; Pietro Perrone, nato a Brancaleone (RC) il 19.04.1958; Paolino Tripodi, nato a Bruzzano Zeffirio (RC) il 17.10.1965; Fabio Trunfio, nato a Brancaleone (RC) il 31.07.1972; Antonino Vitale, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 19.02.1975; Antonino Zappia, nato a Melito di Porto Salvo (RC) 29.10.1982; Benedetto Zappia, nato a Melito di Porto Salvo(RC) il 14.11.1978; Benedetto Zappia, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 06.12.1972.

AI DOMICILIARI: Michele Ascone, nato a Gioia Tauro (RC) il 14.05.1961; Giuseppe Mesiano, nato a Brancaleone (RC) l’08.02.1959; Giovanni Morabito, nato a Locri (RC) il 20.11.1982; Saverio Palumbo, nato a Melito Porto Salvo(RC) il 15.08.1984; Vincenzo Toscano, nato a Melito di Porto Salvo(RC) il 02.08.86; Domenico Vitale, nato a Torino l’08.10.1974.

OBBLIGO DI DIMORA: Stefano Benavoli, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 26.12.1992; Fabio Bonanno, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 13.12.1983; Paolo Costantino, nato in Svizzera il 25.01.1973; Stefano Cristiano, nato a Brancaleone (RC) il 08.02.1966; Giovanni De Cicco Cuda, nato a Lamezia Terme (CZ) il 25.01.82; Giuseppe Gallo, nato a Reggio Calabria il 08.07.1984; Salvatore Ielo, nato a Reggio Calabria il 09.09.1976; Sebastiano Profazio, nato a nato a Palizzi (RC) il 28.06.1965; Nicola Sciglitano, nato a Reggio Calabria il 23.12.1992.

Nel corso delle operazioni sono stati arrestati in flagranza: Vincenzo Toscano, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 02.08.86 (ai domiciliari), fermato a Milano per detenzione di una pistola Beretta calibro 7.65 con matricola abrasa; e Giuseppe Gallo, nato a Reggio Calabria il 08.07.1984 (destinatario dell’obbligo di dimora) fermato invece a Ventimiglia (Imola) per detenzione al fine di spaccio di 753 grammi di cocaina.

I BENI SEQUESTRATI

Su richiesta della Dda, il Gip di Reggio Calabria ha disposto anche il sequestro preventivo di alcune ditte che si ritiene siano state utilizzate per eseguire lavori ottenuti con condotte estorsive.

Si tratta in particolare della “Tripodi Veneranda” di Brancaleone, il cui titolare sarebbe Annunziato Alati (marito di Veneranda Tripodi).

Poi, l’impresa Teknoimpianti di Condoleo Francesca, a Gioia Tauro. Quest’ultima, affidataria del servizio di custodia e manutenzione dell’impianto di depurazione del Comune di Brancaleone, avrebbe assunto Paolino Tripodi, cognato di Annunziato Alati, proprio per inserire un soggetto di riferimento della cosca all’interno della gestione della manutenzione dell’impianto.