Stangata ai beni del clan Labate, confiscati beni per 33 milioni di euro
Una maxi confisca da 33 milioni di euro. Un ingente patrimonio che viene acquisito allo Stato sottraendolo a soggetti che gli inquirenti ritengono appartengano alla cosca reggina dei Labate.
Imprese commerciali, beni mobili, immobili e disponibilità finanziarie su cui stamani la Guardia di Finanza - con il coordinamento della Dda della Procura diretta da Giovanni Bombardieri e su richiesta dell’Aggiunto Calogero Gaetano Paci e del Sostituto Stefano Musolino - sta apponendo i sigilli eseguendo un provvedimento emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale locale.
Tra le persone interessate dalla misura di prevenzione, c’è Michele Labate, 62 anni, considerato come un esponente di vertice dell’omonima cosca insieme al fratello Pietro, che annovera condanne irrevocabili, tra l’altro, per associazione per delinquere di tipo mafioso (LEGGI).
Pietro Labate, 67 anni, già Sorvegliato Speciale e latitante per lunghi periodi, nel corso del 2015 è stato sottoposto a fermo dal Gico per intralcio alla giustizia aggravato dalle finalità e modalità mafiose: gli si contestavano infatti delle minacce ad una testimone - in un importante processo in corso proprio nei confronti del fratello Michele e di altri esponenti della cosca – per indurla alla falsa testimonianza. Reato per il quale è stato condannato - con sentenza confermata in Appello nel 2016 – a 5 anni di reclusione.
La confisca di oggi, poi, colpisce i fratelli Giovanni e Pasquale Remo, condannati a 15 anni, con sentenza definitiva, per concorso in associazione per delinquere di tipo mafioso.
Inoltre, i sigilli sono stati apposti al patrimonio immobiliare degli eredi di Antonio Finti (cl. ’42), imprenditore reggino deceduto nel 2014. Gli inquirenti ne avrebbero infatti ricostruito la sua “vicinanza” ai Labate grazie ai riscontri eseguiti sulle dichiarazioni fornite da un collaboratore di giustizia che lo indicavano come “soggetto a disposizione della cosca” e “deputato al reimpiego dei proventi illeciti attraverso acquisizioni immobiliari”.
IL CONTROLLO DELLA “CARNE”
L’esistenza e l’operatività della cosca “Labate”, nei quartieri di Gebbione e Sbarre della zona sud di Reggio Calabria, sarebbe stata più volte accertata con più di una pronuncia già passata in giudicato.
In particolare gli inquirenti hanno riconosciuto il ruolo di primo piano di Michele Labate e del fratello Pietro, e il controllo assoluto - già dal lontano 1987 - della gestione delle attività economiche, soprattutto nel settore del commercio della carne.
In questo contesto le investigazioni economico-patrimoniali delegate dalla Dda al Gico, oltre a delineare la presunta “pericolosità sociale qualificata” di Michele Labate e dei fratelli Pasquale e Giuseppe Remo, avrebbero permesso di definire le loro aziende come “imprese mafiose” in quanto nate e accresciutesi “sfruttando il potere mafioso della cosca Labate per sbaragliare la concorrenza, per imporsi sul mercato, per procurarsi clienti, con totale alterazione delle regole della concorrenza, finendo per operare nella zona di competenza in posizione sostanzialmente monopolistica”.
A tal riguardo, attraverso articolati accertamenti e l’acquisizione di diversa documentazione come contratti di compravendita di beni immobili, quote societarie, atti notarili, ecc., sono state ricostruite tutte le transazioni economiche effettuate da Labate e dai Remo negli ultimi 30 anni.
Secondo gli investigatori i loro investimenti come quelli dei familiari, sarebbero stati effettuati con del denaro ritenuto di provenienza delittuosa, in quanto derivante da una “attività imprenditoriale svolta secondo modalità mafiose”.
LA PRESUNTA PERICOLOSITÀ DI ANTONIO FINTI
Per quanto riguarda Antonio Finti, sebbene non sia mai stato direttamente coinvolto in procedimenti penali associazione a delinquere di tipo mafioso o per altri, l’esistenza del suo profilo di pericolosità sociale qualificata sarebbe stata accertata attraverso diversi riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
I Finanzieri, ricostruendo i flussi finanziari e le vicende economiche del suo intero nucleo familiare sin dal 1972, avrebbero scoperto che gli investimenti immobiliari effettuati nel tempo sarebbero stati del tutto sproporzionati rispetto alle risorse lecite disponibili.
I DETTAGLI DEL PROVVEDIMENTO
Alla luce di tutto ciò, il Tribunale ha così disposto di sottoporre alla Sorveglianza Speciale Michele Labate, Pasquale e Giovanni Remo, e Pietro Labate (che è considerato il boss dell’omonima cosca), e di confiscare appunto il patrimonio riconducibile a tutti e tre come anche ai relativi nuclei familiari, oltre che agli eredi di Antonio Finti.
Si tratta di beni il cui valore ammonta a circa 33 milioni di euro e costituiti dal patrimonio e dalle quote sociali di cinque complessi aziendali, 62 immobili (tra fabbricati e terreni) a Reggio Calabria, tre autoveicoli e rapporti finanziari-assicurativi oltre che disponibilità finanziarie.
Con la confisca di oggi il valore del patrimonio sottratto alla ‘ndrangheta dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria negli ultimi 18 mesi, sale così ad oltre 630 milioni di euro.