Omicidio Di Leo. Ammazzato a colpi di kalashnikov: sentenza ribaltata, assolto imputato
La Corte d’assise d’appello di Catanzaro, presieduta da Marco Petrini, ha assolto Francesco Fortuna, 39enne di Sant’Onofrio, dall’accusa di essere uno dei killer di Domenico Di Leo, detto “Micu i Catalanu”, ammazzato nel corso di in un agguato avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 2004 a colpi di pistola, fucile e di kalashnikov.
Le accuse formulate dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro non hanno retto in appello e i giudici di secondo grado hanno quindi accolto le richieste di assoluzione degli avvocati Sergio Rotundo e Salvatore Staiano, co-difensori dell’imputato.
Il Pg aveva chiesto nei confronti di Fortuna la condanna a trenta anni di carcere. In pratica la conferma del verdetto di primo grado che alla luce della decisione odierna è stato dunque e completamente ribaltato (LEGGI).
LE INDAGINI, coordinate dal procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri, sono partite dal taglio di mille ulivi risalente al 2011, a titolo di estorsione ai danni di una cooperativa con scopi benefici gestita anche da religiosi, a Stefanaconi, e conclusasi con l’arresto dei vertici del clan dei Bonavota.
Fortuna, finito in manette il 13 gennaio 2016 (LEGGI), era stato “incastrato” dai guanti di lattice che comparati con il suo Dna consentirono ad inquirenti e investigatori di fare quadrato su un omicidio efferato, dove all’epoca dei fatti furono trovati ben 45 bossoli di fucile, oltre che - e come dicevamo – di pistola e del potente mitragliatore kalashnikov.
I MOZZICONI IN TASCA E LA PEDINA SCOMODA
All’arresto hanno anche contribuito le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato che ha raccontato come Fortuna sarebbe stato solito nascondere in tasca i mozziconi di sigaretta perché nessuno potesse risalire al suo dna.
L’attività di indagine permise di ricostruire tutta la vicenda che portò all’eliminazione di Di Leo, divenuto una “pedina” scomoda per il suo clan.
Non sarebbe stato, infatti, un unico movente a determinarne l’uccisione: secondo li investigatori, le frizioni che, in quel determinato periodo storico, sarebbero emerse nel clan Bonavota e che portarono all’eliminazione di diversi suoi componenti, oltre al fatto che Di Leo sarebbe stato offeso proprio uno dei Bonavota, intrattenendo una relazione sentimentale con la cugina, sarebbero stati solo alcuni dei motivi per i quali “Micu i Catalanu” andava fatto fuori.
Alla base del delitto c’era però molto di più: la tesi è infatti che ci fossero degli interessi economici e per gli inquirenti determinante sarebbe stato l’episodio che si era verificato nella zona industriale di Maierato immediatamente prima dell’omicidio, quando Di Leo aveva “cacciato” gli operai che, per conto di Domenico Bonavota, dovevano effettuare gli scavi per la realizzazione di un bar nella zona industriale, locale che sarebbe stato da intestare alla moglie di Nicola Bonavota e a Rosa Serratore.
La vittima, inoltre, era ritenuta responsabile del collocamento di un ordigno che aveva distrutto una concessionaria di autovetture ubicata allo svincolo autostradale di Sant’Onofrio.
E poi c’era il timore che Di Leo potesse porre in essere azioni nei confronti di altri esponenti del clan, in ragione della sua caratura criminale e della “voglia” che stava maturando di imporsi nell’ambito della consorteria e sul territorio.