Sigilli al “tesoro” di “Billy” Mancuso, un patrimonio da 20 milioni di euro
Un patrimonio del valore di circa 20 milioni di euro, composto da decine di terreni, una quindicina di fabbricati e capannoni, oltre che da due aziende agricole e mezzi vari. Un “tesoretto” che è ritenuto riconducibile ad uno dei presunti capi storici della cosca di ‘ndrangheta di Limbadi, Giovanni Mancuso (78 anni), detto “Billy”.
Stamani la Guardia di Finanza di Vibo Valentia - coordinata dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, dall’Aggiunto Vincenzo Capomolla e dai Sostituti Antonio De Bernardo e Pasquale Mandolfino - ha eseguito a suo carico un provvedimento di sequestro di beni che ha colpito in particolare 92 terreni tra Limbadi, Nicotera, Rombiolo, Zungri, Drapia e Filandari; 16 fabbricati, di cui 2 capannoni industriali, nei comuni di Limbadi e Filandari e a Milano (in un caso); 9 autoveicoli e un trattore agricolo; due aziende agricole a Limbadi e due ditte individuali, delle quali una stazione di servizio a Filandari.
Mancuso è stato ritenuto un “soggetto di pericolosità sociale qualificata”, dopo che la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Vibo, con un decreto del 18 dicembre del 2014, aveva applicato a suo carico la sorveglianza speciale per cinque anni.
Il percorso delinquenziale di “Billy” affonda le radici in un lontano passato, come emergerebbe dalle condanne subite dallo stesso sin dai primi anni ‘60 per vari reati tra i quali quello contro il patrimonio, in materia di falso, porto abusivo di armi, pascolo abusivo, violenza per costringere altri a commettere un reato.
Ed ancora per oltraggio a pubblico ufficiale, violazioni alla normativa urbanistica ed edilizia e, soprattutto, per un fatto commesso nel 1975, il sequestro di una persona a scopo di estorsione. Tutte condanne che lo hanno costretto a prolungati periodi di detenzione.
La misura patrimoniale eseguita stamani ha preso in considerazione, sotto il profilo della pericolosità sociale, fatti che hanno riguardato Mancuso dal 2004 e, in particolare, quelli che sono confluiti nel procedimento penale conclusosi il 27 marzo 2013 con l’operazione della Dda contro il clan Mancuso, e meglio nota come “Black Money” (QUI).
Gli accertamenti patrimoniali svolti successivamente dalla Guardia di Finanza, e delegati dalla Direzione Distrettuale Antimafia, avrebbero permesso di ricostruire un vasto patrimonio di proprietà del 78enne, individuando numerosi beni formalmente intestati a lui, alla moglie, ai figli, ai loro congiunti e ad un soggetto estraneo alla famiglia.
Per gli inquirenti, però, si sarebbe evidenziata una “palese sproporzione, ingiustificata” tra il loro valore ed i redditi dichiarati dagli acquirenti.
Una sproporzione che gli investigatori hanno ritenuto “espressiva dell’utilizzo di proventi illeciti derivanti dalle attività criminali” di Mancuso.
IL METODO DEI “MANCUSO”: L’USUCAPIONE DEI TERRENI
L’individuazione di questo patrimonio è stata possibile solo al termine di una complessa attività di analisi di informazioni reperite dalle numerose banche dati della Guardia di Finanza, messe poi a confronto con le risultanze delle indagini di polizia giudiziaria condotte anche sul territorio, e che avrebbero dimostrato la riconducibilità degli essi al 78enne.
“L’acquisizione dei beni rinvenibili nel patrimonio sottoposto a sequestro - sostengono gli investigatori delle fiamme gialle - riflette una procedura che soltanto in apparenza rispetta i canoni della legalità e trasparenza, ma che a ben vedere nasconde i meccanismi perversi del metodo mafioso, che inquina il regolare svolgimento delle attività economiche e del libero mercato ed il diritto di proprietà”.
L’ipotesi dei militari è che “molti di questi beni sarebbero stati infatti acquisiti con modalità indicative tipiche dell’agire illecito di Mancuso (ovvero per usucapione o, talvolta, quale verosimile corrispettivo di attività di carattere usuraio), approfittando dello stato di bisogno dei legittimi proprietari e sfruttando la forza del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento alla famiglia Mancuso”.
Per gli investigatori l’acquisto dei terreni per usucapione sarebbe infatti un’altra modalità molto frequente in cui si manifesterebbe il potere intimidatorio della cosca vibonese, che sfruttando l’egemonia sul territorio, avrebbe occupato abusivamente i fondi, esercitandovi gratuitamente l’attività agricola, assicurandosi i contributi pubblici erogati dall’Arcea ed acquistandoli poi nel tempo, sfruttando l’inerzia dei legittimi proprietari, che si sarebbero guardano bene dall’intentare cause per il timore di subire minacce e ritorsioni.
“UN MODUS OPERANDI RAFFINATO”
Un “modus operandi” della famiglia Mancuso che gli inquirenti definiscono “raffinato” al punto che per tentare di eludere le misure di carattere patrimoniale, previste dalla normativa antimafia e che richiedono la sperequazione tra il patrimonio posseduto e i redditi dichiarati e le attività economiche esercitate, avrebbe fatto ricorso all’acquisizione di beni a costo zero, così da non potere essere considerati appunto ai fini dell’applicazione della misura.
In seguito gli stessi beni sarebbero stati trasferiti ad appartenenti ad altre famiglie, così da rendere più complessa e onerosa l’attività investigativa, dato che la provenienza illecita sarebbe stata “edulcorata” dal passare del tempo e mascherata da atti giuridici apparentemente leciti, garantiti persino da notai.
Nel corso dell’indagine, i finanzieri hanno ad esempio accertato che il defunto Pasquale Molino (classe 1927), suocero di Silvana Mancuso, figlia di Giovanni, nel 2014 avrebbe trasferito attraverso un atto testamentario olografo, un patrimonio immobiliare cospicuo, composto da terreni e fabbricati tra Limbadi e Nicotera, all’omonimo nipote 30enne, ovvero al figlio di Silvana.
L’atto, reso pubblico da un Notaio nel 2016, due anni dopo la morte del nonno paterno, legittimandone in tal modo il trasferimento della proprietà a costo zero, è risultato falso poiché scritturato sotto dettatura da una persona diversa dal defunto.
Infatti sarebbero state utilizzate delle frasi non congruenti con il livello culturale di Molino, e ancora di più sarebbe stato documentato il trasferimento di immobili di cui il defunto non avrebbe mai avuto il titolo di proprietà, ed intestati a ignare terze persone che hanno disconosciuto l’atto giuridico.
In particolare, il nonno paterno avrebbe trasferito al nipote una particella catastale che nel lontano 1988, con regolare rogito notarile, sarebbe stata acquistata da Silvana Mancuso, madre di Pasquale Molino, destinatario di tutti i beni, senza che mai la donna avesse trasferito la proprietà del terreno oggetto della donazione testamentaria al suocero.
Secondo le indagini quest’ultimo sarebbe stato un prestanome di Giovanni Mancuso, al quale negli anni 60/70 erano stati intestati terreni, che di fatto gestiva il secondo e che quindi con l’atto testamentario sarebbero ritornati nell’effettiva disponibilità e proprietà della famiglia Mancuso, nello specifico il 30enne Pasquale Molino, che rappresenta la terza generazione della “dinastia”.
L’operazione che ha fatto scattare i sigilli a questi beni non a caso è stata chiamata “Terra Nostra”, un nome che vuole evidenziare l’importanza che rivestono da sempre i terreni (in particolare la loro acquisizione ed utilizzo) nelle logiche criminali della famiglia Mancuso, “che costituiscono una delle forme più antiche di espressione del potere mafioso sul territorio”, affermano gli inquirenti.