I “costruttori” della ‘ndrangheta e le fortune accumulate con l’aiuto delle cosche

Reggio Calabria Cronaca
Da sinistra: Carmelo Ficara, Andrea Francesco Giordano, Giuseppe Surace, Michele Surace

Andrea Francesco Giordano (68 anni), Michele e Giuseppe Surace (rispettivamente di 62 e 35 ann) e Carmelo Ficara (63 anni): sono loro i quattro noti imprenditori edili del reggino a cui la Dda locale ha sequestrato stamani un imponente patrimonio, il cui valore viene stimato, in totale, in oltre 200 milioni di euro (QUI).

Secondo gli inquirenti sarebbero tutti appartenenti o comunque vicini alle note cosche locali dei Tegano e dei De Stefano. I quattro erano infatti finiti in carcere nell’ambito dell’operazione “Monopoli”, del 2018 (QUI), quando gli si contestarono reati come l’associazione mafiosa, il trasferimento fraudolento di valori e l’autoriciclaggio; allora vennero anche raggiunti da un sequestro che interessò compendi aziendali, beni mobili e immobili, per circa 50 milioni di euro.

Le indagini - partite nel febbraio del 2017 e condotte dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri reggini - avrebbero fatto luce su un presunto “sistema di cointeressenze criminali” coltivate dagli stessi imprenditori che “sfruttando l’appoggio delle più temibili cosche cittadine” sarebbero così riusciti ad accumulare, ed in modo ritenuto del tutto illecito, degli enormi profitti poi riciclati in fiorenti e diverse attività commerciali.

La tesi degli inquirenti è che Andrea Giordano e Michele Surace (quest’ultimo aiutato dal figlio Giuseppe), sfruttando appunto l’appoggio dei clan locali, abbiano reinvestito questi capitali anche in una Sala Bingo di Reggio Calabria e reimpiegato delle ingentissime quantità di denaro per lo più nel settore edile, costruendo svariate società che, sempre secondo gli investigatori, sarebbero state intestate fittiziamente a dei prestanome.

Quanto al bingo, poi, si sospetta che sia tato gestito in un regime di “monopolio”, proprio in virtù di precisi accordi che sarebbero stati stipulati con esponenti apicali della famiglia Tegano di Archi.

I RAPPORTI CON IL BOSS STORICO DEI TEGANO

Gli inquirenti spiegano poi che proprio delle rivelazioni fornite da alcuni collaboratori avrebbero delineato un profilo di Giordano e Surace come degli affiliati di lunga data proprio ai Tegano e che sarebbero stati anche in contatto, in particolare, con il boss Giovanni Tegano, 80enne ed attualmente detenuto.

Gli svolti dai Carabinieri hanno così ripercorso le “fortune” di entrambe gli imprenditori, fortune che sarebbero partite grazie all’attività di costruzione di edifici residenziali.

Verso la fine degli anni ’90 gli stessi hanno infatti realizzato il complesso “Mary Park” – un fabbricato che successivamente ospiterà i locali dell’unica sala bingo cittadina - e numerose villette a schiera, in cui sarebbe stata riservata la disponibilità di un appartamento proprio a Giuseppe Tegano, fratello del boss Giovanni.

Il che, per gli inquirenti, dimostrerebbe un rapporto con la cosca e che, nel tempo, potrebbe aver garantito agli imprenditori quello che definiscono come “un eccezionale sviluppo economico”.

In questo contesto, gli accertamenti documenterebbero come i proventi ritenuti illeciti della cosca sarebbero stati diversificati in iniziative imprenditoriali affidate appunto a Surace e Giordano, “divenuti nel tempo un tassello fondamentale del sistema di riciclaggio e reinvestimento dei proventi illeciti della famiglia”, sostengono gli investigatori.

Il “SISTEMA SCIMONE”

Quanto invece all’altro, imprenditore Carmelo Ficara, a questi viene invece contestato di aver concluso un patto con lo storico clan reggino dei De Stefano, in cambio del quale avrebbe ottenuto protezione ma anche la possibilità di sviluppo imprenditoriale ed edificatorio, soprattutto nel territorio di Archi.

I nomi di Andrea Francesco Giordano, Michele Surace e dello stesso Ficara, emergono anche nelle indagini relative all’operazione “Martingala” (QUI) (condotta dalla Dia e Gico e coordinata dalla Dda) che colpì un presunto ed articolato gruppo criminale accusato anch’esso – e a vario titolo – di associazione mafiosa, riciclaggio e autoriciclaggio, dell’emissione di false fatturazioni, con l'aggravante - per alcuni di loro - del metodo mafioso.

L’operazione si compì nel 2018 con l’arresto di 27 persone e il sequestro di 51 società (anche estere), oltre che di beni e disponibilità finanziarie per circa 119 milioni di euro (QUI).

In quel contesto si delineò quello che venne definito come il “Sistema Scimone”, che prese il nome del suo presunto ideatore e promotore, Antonio Scimone.

In pratica, il “sistemaavrebbe funzionato così: attraverso l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti - grazie all’impiego di società cosiddette cartiere - si sarebbero consumate delle frodi fiscali e anche del riciclaggio, oltre che il reimpiego di imponenti flussi finanziari provenienti da imprenditori considerati “espressione” dell’infiltrazione economica della ‘ndrangheta.

L’AVVIO DELLE INDAGINI PATRIMONIALI

In relazione a questi risultati la Dda ha delegato il Gico della Guardia di Finanza, il Nucleo Investigativo dei Carabinieri e il Centro Operativo Dia, a svolgere un’apposita indagine economico-patrimoniale finalizzata poi all’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali a carico degli stessi imprenditori.

Nella stessa ottica, viene evidenziato lo sforzo degli uomini dell’Arma nella ricerca dei patrimoni ritenuti accumulati in maniera illecita, con l’individuazione di eventuali intestazioni fittizie e transazioni finalizzate a dissimulare la reale provenienza dei beni. Indagini che implementate con l’apporto di strutture specialistiche, che operano in maniera simbiotica rispetto alle tradizionali investigazioni, hanno consentito negli ultimi anni di raggiungere risultati ragguardevoli nel settore, tranciando il supporto finanziario ai gangli criminali territoriali.

Al riguardo, dopo aver delineato un “profilo di pericolosità sociale qualificata” degli indagati, anche valorizzando i risultati ottenuti da precedenti indagini, l’attività è stata indirizzata alla ricostruzione delle acquisizioni patrimoniali (dirette o indirette) effettuate nell’ultimo trentennio, accertando - attraverso complessi, articolati e minuziosi accertamenti e riscontri documentali - i patrimoni dei quali gli imprenditori sono risultati disporre ed il cui valore è stato giudicato “decisamente sproporzionato” rispetto alla capacità di reddito dichiarate ufficialmente.

Inoltre si ritiene di aver ricostruito anche le presunte fonti illecite dalle gli stessi avrebbero tratto le risorse per l’acquisizione degli stessi beni, soprattutto, “la natura mafiosa delle attività d’impresa svolte - nel tempo – … quali imprenditori espressione delle cosche di riferimento”, affermano gli inquirenti.

Con riferimento proprio al percorso esistenziale degli imprenditori, sarebbero state così individuate delle presunte condotte illecite ma anche le frequentazioni, i legami parentali, i precedenti giudiziari e gli altri elementi ritenuti fondamentali per la formulazione, ai sensi della normativa antimafia, del giudizio di “pericolosità sociale”.

IL SOSTEGNO ALLE ALTRE FAMIGLIE MAFIOSE

Dagli approfondimenti sarebbe difatti emerso che gli imprenditori, considerati “inseriti nelle file della ‘ndrangheta reggina”, abbiano “stabilmente e in maniera sistematica” messo a disposizione nel tempo le proprie risorse economiche e capacità professionali, non solo a favore delle due cosche dei Tegano e De Stefano (“intessendo con questi un rapporto di florida e pluriennale collaborazione in una prospettiva di biunivoca utilità”) ma anche a sostegno delle più importanti famiglie mafiose del capoluogo come i Latella, i Libri ed i Labate: nell’ottica di un’ormai riconosciuta unitarietà della stessa ‘ndrangheta.

Le investigazioni avrebbero poi portato ad acquisire diversi elementi di riscontro si delle intestazioni fittizie che sarebbero state dagli imprenditori con la complicità di familiari e prestanome per eludere l’eventuale applicazione delle misure di prevenzione, costruendo delle articolate strutture per schermare la titolarità di fatto di società e immobili.

I BENI CAUTELATI

Alla luce di tutto ciò, quindi, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, su richiesta della Dda, ha disposto il sequestro dell’intero patrimonio riconducibile a Giordano, a Surace ed al figlio, e a Ficara oltre che alle rispettive famiglie.

Beni composti dall’intero compendio di venti tra imprese e società commerciali edili (comprensivo, anche delle quote sociali, di 172 immobili, 9 veicoli), delle quote societarie relative a 10 imprese, di 284 tra fabbricati e terreni, 4 veicoli, e disponibilità finanziarie e rapporti bancari ed assicurativi.

La misura di oggi è stata eseguita dai militari dei Comandi Provinciali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri di Reggio Calabria, insieme al personale del Centro Operativo della Direzione Investigativa Antimafia, e del Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata delle fiamme gialle.

Le indagini sono state coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della città dello Stretto, diretta dal Procuratore Capo Giovanni Bombardieri, mentre i provvedimenti sono stati emessi dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale locale - presieduta da Ornella Pastore - su richiesta dell’Aggiunto Calogero Gaetano Paci e dei Sostituti Walter Ignazitto e Stefano Musolino.