Il “cartello” gestiva gli appalti, la ‘ndrangheta ringraziava: 63 indagati e sequestri milionari

Reggio Calabria Cronaca

Quattordici persone finite in arresto (ai domiciliari) su 63 complessivamente indagate; un maxi sequestro dell’imponente valore che supera i 103 milioni di euro e che ha interessato l’intero patrimonio aziendale di ben 36 tra aziende ed imprese, oltre a disponibilità finanziarie composte da rapporti bancari, finanziari, assicurativi e partecipazioni societarie, di 45 dei coinvolti.

Per altri sette degli indagati, invece, e nello stesso contesto, i sigilli sono scattati su beni mobili, immobili, quote e azioni di società, e anche qui rapporti bancari, finanziari e assicurativi, fino alla concorrenza complessiva di circa 9,5 di milioni.

Numeri importanti, dunque, quelli dell’operazione “Waterfront” (QUI), avviata stamani all’alba in 17 province di otto regioni italiane facendo emergere, ovviamente secondo gli inquirenti, l’interesse della cosca dei Piromalli nell’accaparrarsi gli appalti pubblici.

Un “sistema” che vedrebbe coinvolti tanto imprenditori quanto anche dei pubblici ufficiali, ben undici, a cui si contestano a vario titolo l’associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d’asta, la frode in pubbliche forniture, la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (aggravate dall’agevolazione mafiosa) e, dulcis in fundo anche l’abuso d’ufficio e la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.

GLI INDAGATI

Le misure, come dicevamo, hanno fatto scattare le manette per 14 persone. Si stratta in particolare di Francesco Bagalà, cl. 77; Francesco Bagalà, cl. 90; Giorgio Morabito; Angela Nicoletta; Carlo Cittadini; Giorgio Ottavio Barbieri; Cristiano Zuliani; Francesco Migliore, Filippo Migliore, Alessio La Corte, Vito La Greca, Francesco Mangione, Giovanni Fiordaliso e Domenico Gallo.

In venti invece sono stati sottoposti all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria: Pierluigi Risola, Antonino Crea, Michele Gabriele, Santo Fedele, Giuseppe Currenti, Francesco Fedele, Bruno Polifroni, Santo Custureri, Luigi Bagalà, Alessandra Campisi, Caterina De Giuseppe, M.G., Pietro Pileggi, Antonino Quattrone, Domenico Coppola, Santo Gagliostro, Vincenzo Bressi, Maria Alati, Luca Giachetti, Simona Castiglione.

Altri 29, infine, si sono visti notificare dei divieti temporanei di esercitare l’attività imprenditoriale: Andrea Amato, Antonio Barbaro, Francesco Ciambriello, Antonio Cilona, Sergio Cittadini, Giuseppe Cosentino, Demetrio De Angelis, Francesco Deraco, Gianluca Fiore, I.G., R.G., Angelo Sebastiano Locatelli, Giuseppe Loprete, Leonardo Maiolo, Mattia Mattogno, Domenico Maugeri, Ludovica Giuseppina Miceli, Giovanni Oliveri, Giuseppe Patrice Oliveri, Antonino Papalia, Alessandro Piccirilli, Francesco Pileggi, Fortunato Igor Pisano, Vincenzo Polifroni, Carlo Pollaccia, Giovanni Romano, Agostino Ruberto, Giovanni Todarello e Francesca Trunfio.

IL CARTELLO ILLECITO

L’operazione di oggi e l’epilogo delle indagini condotte dal Gico di Reggio Calabria insieme allo Scico, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia.

Gli investigatori hanno “scandagliato” in particolare 57 imprenditori che si ritiene facessero parte, a vario titolo, di un cartello illecito” composto da diverse imprese, e capace di aggiudicarsi - attraverso delle turbative d’asta aggravate dall’agevolazione mafiosa - almeno 22 gare pubbliche e così frodando “sistematicamente” la Regione Calabria e la Comunità Europea.

Le gare che si presume siano state “alterate” e tenuto sotto controllo dai militari sono state bandite tra il 2007 e il 2016 dalle stazioni appaltanti dei Comuni di Gioia Tauro e Rosarno e dalla Suap (la Stazione Unica Appaltante) del capoluogo dello Stretto, e per un valore complessivo che supera i 100 milioni di euro.

LE “CORDATE” SULLE LE GRANDI OPERE

Gli investigatori, anche grazie alle consulenze tecniche disposte dalla Dda, avrebbero così accertato la turbativa di 15 di queste gare d’appalto effettuate tra il 2014 e il 2016 ed indette per la realizzazione di grandi opere pubbliche a Polistena, Rizziconi, Gioia Tauro, Gerace, Reggio Calabria, Santo Stefano in Aspromonte, Maropati, Grotteria, Galatro, San Giorgio Morgeto, Siderno. Il tutto per ammontare di 58 milioni di euro.

Al riguardo sarebbe stato individuato il presunto cartello - che si ritiene fosse costituito da 43 imprese con sedi in diverse regioni - e che stato articolato in “cordate”, quella calabrese, romana, toscana, siciliana e campana.

Le aziende, quindi, avrebbero partecipato ai pubblici incanti, determinandone l’esito con la presentazione di offerte concordate precedentemente, e garantendo così l’aggiudicazione degli appalti a una delle imprese facenti parte dello stesso “cartello”.

Secondo i militari, quando poi quest’ultimo non fosse riuscito a vincere l’appalto, sarebbe state messe in atto delle “manovre”, sotto forma del subappalto o della procedura di nolo così da controllare la gara e la conseguente esecuzione dei lavori, comunque, alle imprese delle varie cordate.

Sotto la lente vi sono anche altri sette appalti, conseguenti allo stanziamento, tra il 2007 e 2013, di fondi comunitari per un importo di circa 42 milioni di euro, e destinati alla riqualificazione delle aree urbane di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando, e dei relativi lungomare, in attuazione dei cosiddetti Pisu, ovvero i Progetti Integrati di Sviluppo Urbano previsti dal Por Calabria “FESR 2007/2013 Asse VIII Città Obiettivo Specifico 8.1. Città e Città ed Aree Urbane".

LA TANGENTE “AMBIENTALE”

La turbativa della gare sarebbe risultata aggravate dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta, in particolare la cosca dei Piromalli di Gioia Tauro, che si sarebbe assicurata una rilevante “tangente ambientale”, garantendo la realizzazione dei lavori.

In questo presuntosistema”, che sarebbe stato sostenuto da un collante composito fatto di imposizione ‘ndranghetistica e collusione”, sostengono gli inquirenti, lo scopo perseguito sarebbe stato quindi quello di garantirsi il controllo dell’intero sistema delle gare pubbliche indette dalle stazioni appaltanti calabresi.

A capo di tutto si ritiene vi fossero Francesco Bagalà (cl. ’77) e Giorgio Morabito che, con l’aiuto dell’omonimo Francesco Bagalà (cl. ’90), avrebbe realizzato una serie di reati contro la pubblica amministrazione e contro l’industria ed il commercio, con lo scopo di appropriarsi di ingenti risorse pubbliche costituite dai fondi comunitari (i Pisu.) i quali, piuttosto che essere destinati ad una riqualificazione del waterfront di Gioia Tauro, avrebbero invece consentito un ingente lucro ai danni degli enti pubblici interessati.

GLI IMPRENDITORI COLLUSI

Il ruolo degli imprenditori considerati collusi” dei Bagalà, emergerebbe dalle risultanze di un’altra operazione, la Cumbertazione, conclusa nel 2017 dal Gico che arrestò allora 27 persone (QUI) accusate di associazione mafiosa, associazione semplice e aggravata, turbata libertà degli incanti, frode nelle pubbliche forniture, corruzione e falso ideologico in atti pubblici, portando anche al sequestro di decine di imprese.

Anche Morabito - come risulterebbe da diverse e concordanti dichiarazioni ampiamente riscontrate - proprio in considerazione del suo presunto spessore criminale, avrebbe avuto dei rapporti di “vicinanza con i referenti della cosca sulla marina di Gioia Tauro.

Difatti, per l’esecuzione dei lavori di cui agli appalti banditi dal quel comune, Giorgio Morabito, imprenditore ritenuto “colluso” e procuratore speciale delle ditte romane e siciliane appartenenti al “cartello”, avrebbe consentito l’assunzione, nei cantieri da lui gestiti o alle dipendenze delle imprese aggiudicatarie, di maestranzesegnalatedal referente dei Piromalli, oltre che l’utilizzazione di mezzi meccanici e di un deposito riconducibili ad altri imprenditori considerati vicini ad ambienti criminali mafiosi.

LA “FRODE SISTEMATICA”

Le indagini eseguite nell’ambito dell’operazione hanno riguardato anche le condotte “a valle delle gare di appalto, focalizzando l’attenzione sull’esecuzione materiale delle opere.

È così che si sarebbe scoperta una “sistematicafrode nelle forniture pubbliche relative a lavori di Gioia Tauro e Rosarno in cui erano stati stanziati i fondi comunitari e la percezione di somme non dovute”, per importi quantificati complessivamente in circa 6 milioni di euro.

A questo riguardo, le indagini avrebbero riscontrato delle irregolarità diffuse di carattere contabile e amministrativo, come, a titolo esemplificativo, la liquidazione all’appaltatore di spese non dovute, l’utilizzo distorto delle cosiddette varianti in corso d’opera”; difformità rispetto ai progetti approvati nell’esecuzione dei lavori e nell’utilizzo dei materiali; omessi collaudi statici; consegne parziali; polizze fidejussorie irregolari; prove non eseguite sulla qualità e sullo spessore degli asfalti bituminosi.

Irregolarità che riguarderebbero l’esecuzione degli appalti per la realizzazione, tra le altre, di importanti opere da destinare alla pubblica utilità come il Palazzetto dello Sport, il Parcheggio interrato e il Centro Polifunzionale di Gioia Tauro, oltre Centro Polisportivo di Rosarno.

IL RUOLO DEI TECNICI PUBBLICI

Fondamentale, in questo contesto, è risultata la presunta complicità, e a vario titolo, di pubblici ufficiali incaricati dalle relative stazioni appaltanti e tra cui risultano dirigenti e direttori dei lavori o collaudatori, tecnici progettisti o responsabili unici pro tempore dei procedimenti relativi agli appalti.

Nell’inchiesta, difatti, emergerebbe il ruolo che sarebbe stato svolto dal dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune di Gioia Tauro, l’ingegnere Angela Nicoletta, e dall’architetto Francesco Mangione che, insieme, sono stati direttore dei lavori e responsabile unico del procedimento per la maggioranza degli appalti sul waterfront de delle altre opere pubbliche indette con i fondi Pisu.

L’ipotesi è che avrebbero permesso ai rappresentanti legali delle ditte aggiudicatarie, di poter lucrare ingenti profitti ai danni della Regione e della Comunità Europea che ha cofinanziato i progetti di riqualificazione strutturale.

Oltre ai due professionisti, e con riferimento agli appalti indetti dal Comune di Gioia, a vario titolo risulterebbero coinvolti anche Pierluigi Risola, Antonino Crea, Michele Gabriele e Vincenzo Bressi, in quanto direttori dei lavori e collaudatori, tecnici-progettisti o responsabili unici dei procedimenti relativi agli appalti; e Alessandra Campisi e Maria Alati rispettivamente come RUP e Segretario Comunale del comune di Rosarno.

LO “STABILE RAPPORTO CORRUTTIVO”

Le attività investigative avrebbero poi certificato quello che gli investigatori definiscono come uno “stabile rapporto corruttivo” tra un funzionario del Compartimento di Reggio Calabria dell’Anas, l’ingegnere Giovanni Fiordaliso, e un noto imprenditore, Domenico Gallo, considerato il dominus di numerose società fornitrici di bitume e calcestruzzo.

Un rapporto, si ipotizza, che sarebbe stato finalizzato alla frode nell’esecuzione di svariati contratti di fornitura che avrebbero celato tra l’altro dei subappalti non autorizzati.

Ma anche in svariati lavori in regime di somma urgenza affidati “indebitamente” ad imprese riconducibili allo stesso Gallo - per un valore di 3,5 milioni - nell’ambito di quattro gare per l’ammodernamento di tratti dell’Autostrada A2 Salerno-Reggio, indette tra il 2009 e il 2016 dall’Anas.

Secondo gli inquirenti il funzionario avrebbe ricevuto in cambio dall’imprenditore beni di lusso, utilità o promesse di incarichi redditizi nelle sue imprese.

Al riguardo, emergerebbe che, per il tramite delle imprese a lui risultate riconducibili, e con l’ingerenza del Fiordaliso, Gallo avrebbe potuto effettuare forniture di bitume in diversi tratti autostradali della Salerno-Reggio, attraverso contratti di subfornitura o “nolo a caldo” e “nolo a freddo” che avrebbero celato, in realtà, dei subappalti non autorizzati e utilizzando materiali di qualità inferiore rispetto ai parametri imposti dai capitolati di appalto.

LE PRESTAZIONI PAGATE ALLA MOGLIE

Insomma, a fronte dei presunti “favori£ ottenuti grazie a delle “omissioni” di Fiordaliso, l’imprenditore tra l’altro ed attraverso dei bonifici bancari con causale una retribuzione per prestazioni di lavoro mai effettuate, avrebbe fatto percepire delle somme denaro, per circa 94 mila euro, alla moglie del funzionario Anas, Caterina De Giuseppe, alla quale sono state oggi contestate operazioni di riciclaggio volte ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro ricevuto.

L’OPERAZIONE di oggi è stata condotta da oltre 500 finanzieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, insieme al Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata ed ai colleghi dei rispettivi Comandi Provinciali, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica locale, diretta da Giovanni Bombardieri.

Il blitz è scattato non solo nella provincia dello Stretto ma anche a Catanzaro, Cosenza, Vibo Valentia, Messina, Palermo, Trapani, Agrigento, Benevento, Avellino, Milano, Alessandria, Brescia, Gorizia, Pisa, Bologna e Roma.

L’Ordinanza di applicazione di misura cautelare è stata emessa dal Gip Filippo Aragona su richiesta dell’Aggiunto Calogero Gaetano Paci e del Sostituto Gianluca Gelso.