Il filo rosso con le cosche reggine e crotonesi: scacco al clan egemone nel Potentino, 37 arresti

Calabria Cronaca

Una maxi operazione è scattata stamani nei confronti di affiliati al clan potentino dei Martorano-Stefanutti e che ha portato all’emissione, da parte della Dda del capoluogo della Basilicata, di ben 38 provvedimenti cautelari.

In particolare, in ventotto sono finiti in carcere; nove sono stati invece sottoposti agli arresti domiciliari mentre un altro soggetto è stato raggiunto da un divieto di dimora nella provincia di Potenza.

Il blitz, chiamato in codice “Lucania Felix”, è stato eseguito dagli agenti della Squadra Mobile in una ventina di capoluoghi di tutta Italia arrivando anche in Calabria oltre che nel Lazio, Campania, Umbria, Abruzzo, Puglia e Sicilia.

Le misure, come accennavamo all’inizio, riguardano persone che si ritiene appartengano ai Martorano-Stefanutti, clan mafioso del potentino ma che si estende anche nel materano.

Tutti sono indagati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata al traffico e spaccio di stupefacenti, estorsioni, detenzione e porto illegale di armi, danneggiamento seguito da incendio ed altro: reati aggravati dall’agevolazione e dal metodo mafioso.

Nel corso dell’operazione eseguite, inoltre, sette perquisizioni domiciliari e personali nei riguardi di altrettanti soggetti della zona.

L’indagine è il frutto di una vasta, capillare e complessa attività svolta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza e dalla locale Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile.

Gli investigatori hanno effettuato intercettazioni telefoniche e telematiche, ma anche pedinamenti tradizionali e a distanza, così come tracciamenti col GPS e acquisizioni documentali.

I COLLEGAMENTI COI CALABRESI

Numerosi gli interrogatori di testimoni e collaboratori di giustizia dissociatisi dai alcuni gruppi mafiosi lucani, così come calabresi e siciliani, e che hanno fanno ritenere di aver raccolto un grave quadro indiziario sui presunti capi del clan potentino, ampiamente riconosciuti anche dalla ‘ndrangheta calabrese e dai clan lucani, siciliani e pugliesi.

Le investigazioni - nel corso delle quali sono stati acquisiti documenti contenenti veri e propri riti di affiliazione, regole, organigrammi e ruoli di vertice delle cosche della ‘ndrangheta - dimostrerebbero dunque dei solidi legami intrattenuti e consolidati nel corso degli anni dal sodalizio lucano con alcuni dei clan maggiormente accreditati sul territorio nazionale, come quello dei Pesce-Bellocco di Rosarno (nel reggino) e quello dei Grande Aracri di Cutro (nel crotonese), “con cui è stato intessuto un consistente e duraturo rapporto di collaborazione criminale coltivato negli anni, specie nel settore elettivo dei videogiochi, e per il quale la Dda potentina ha già svolto in passato un’altra indagine.

Altre proiezioni criminose extraterritoriali interessano invece esponenti sia della mafia siciliana, legati ai Santapaola di Catania, sia altri clan presenti e operativi in Puglia e Basilicata.

LA COMPENETRAZIONE NELL’ECONOMIA LOCALE

L’indagine avrebbe inoltre fatto luce su una “capillare compenetrazione” del gruppo potentino nel tessuto economico ed imprenditoriale cittadino, perseguita anche attraverso il ricorso reiterato ad eclatanti azioni intimidatorie.

La ricostruzione investigativa di oltre quindici anni di azioni delittuose considerate riconducibili a esponenti del sodalizio, ha permesso di tracciare - sulla base di indizi ritenuti gravi dal Gip - il solco di un nuovo corso criminale attivo nella città di Potenza, mirato a conseguire e consolidare il monopolio su specifici settori, tra cui l’installazione e la gestione di macchinette video-poker ed i servizi di sicurezza e vigilanza all’interno delle discoteche.

Gli inquirenti spiegano che nello spettro strategico-operativo” del gruppo emergerebbe la spiccata capacità di infiltrarsi nella gestione diretta o indiretta di appalti di opere e servizi pubblici attraverso una fitta rete di contiguità e connivenze insinuatasi persino nelle sfere istituzionali, tra cui anche una sigla sindacale attiva nel comparto sanitario e che, anche attraverso il ricorso a metodi impositivi ed intimidatori, avrebbe consentito per lungo tempo una gestione addomesticatadei dipendenti di una società, già affidataria dei servizi di pulizia presso l’Ospedale San Carlo di Potenza.

Così facendo si sarebbe favorito di fatto il concentrarsi del controllo delle assunzioni e dei licenziamenti proprio nelle mani del sodalizio criminale, che in tal modo ne avrebbe guadagnato una forte sfera di influenza e di credito sociale sul territorio.

LA REGÌA COMUNE COI GRANDE ARACRI

L’inchiesta svelerebbe poi una regìa comune e condivisa del clan potentino con la cosca cutrese dei Grande Aracri di anche in una estorsione subita da un’altra società affidataria di servizi di raccolta e smaltimento rifiuti presso lo stesso ospedale San Carlo, azione per la quale è stato già condannato in via definitiva un componente del gruppo lucano.

Le risultanze investigative hanno quindi restituito il quadro indiziario di una “rinnovata stagione criminale” snodatasi anche attraverso il ripetersi di azioni intimidatorie condotte secondo stili tipicamente mafiosi, “evocativi della garanzia di protezione sul territorio e della necessità di assistenza ai detenuti”, anche attraverso l’uso delle armi, talvolta impiegate per regolamenti di conti interni, come nel caso di una pistola sequestrata nell’agosto del 2020 nel contesto di una discussione per crediti di droga.

LA GESTIONE DELLA DROGA E L’USO DELLE ARMI

Proprio le armi e la droga risultano rappresentare un altro settore di preminente interesse del clan, come confermato anche da precedenti arresti eseguiti nel maggio del 2020, a seguito del ritrovamento di due pistole, oltre che di cocaina e marijuana che gli stessi detenevano in un’abitazione rurale alla periferia di Potenza, e da altri arresti e sequestri di stupefacenti effettuati nel corso di quest’anno, proprio a riscontro delle risultanze investigative.

Il redditizio settore della droga ha permesso al clan di movimentare cospicue somme di denaro, destinate in parte anche all’assistenza in favore dei sodali detenuti.

Parliamo del consolidato sistema della cosiddetta “bacinella”, tipico delle associazioni mafiose, ovvero una forma di mutua assistenza che veniva riservata anche agli esponenti detenuti nella Casa circondariale di Melfi dove, oltre a ricevere costante assistenza materiale, si impartivano specifiche direttive verso l’esterno, anche con la consegna di “pizzini”, e così continuando a mantenere il controllo del sodalizio.