I cantieri, il banco nuovo e il bergamotto: all’Arangea non si batteva chiodo senza l’ok del clan
La cosca Latella Ficara e le dinamiche riorganizzative interne attivatesi per colmare i vuoti di potere causati dall’arresto di elementi di vertice.
Il controllo del territorio del clan nel quartiere Arangea, zona sud di Reggio Calabria, quartier generale della locale in cui la faceva da padrona, imponendosi ed imponendo un diffuso sistema estorsivo; arrivando a gestire, in modo occulto, anche diverse imprese economiche.
È quanto ritiene di aver ricostruito la Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo dello Stretto, nell’ambito dell’operazione che porta proprio il nome dello stesso quartiere reggino, e che stamani ha fatto scattare le manette ai polsi di dodici persone (QUI), undici della quali finite in carcere ed una soltanto sottoposta ai domiciliari: associazione mafiosa, estorsione, intestazione fittizia di beni ed armi le accuse contestate a diverso titolo.
Le indagini - eseguite dai Carabinieri - si sono concentrare appunto sulle fasi della riorganizzazione, fasi che secondo gli inquirenti troverebbero una perfetta aderenza con l’ordinamento della ‘ndrangheta già emerso nella nota inchiesta Crimine (QUI), nella cui sentenza viene riportata la definizione di “locale” e di “doti”, nonché l’esistenza anche del cosiddetto “banco nuovo”, termine con il quale i vertici della ‘ndrangheta intendevano la riorganizzazione delle cariche all’interno del locale.
Per gli investigatori il dato verrebbe attualmente riscontrato in questa indagine e più nello specifico quando uno degli arrestati, Demetrio Palumbo, neglio noto come Mico, avrebbe inteso operare queste riorganizzazione in seno al locale di Arangea coinvolgendo Sebastiano Praticò, già condannato in via definitiva proprio nel processo Crimine, dove lo stesso è stato riconosciuto come un partecipe della cosca che opera nella zona sud del capoluogo e che avrebbe ricoperto una carica di livello provinciale come rappresentante del mandamento di Reggio Calabria.
UNA “PERICOLOSA DEDIZIONE”
L’attività, poi, avrebbe registrato il perseverare delle condotte degli indagati, già condannati definitivamente per associazione mafiosa, che dopo una lunga militanza in seno alla cosca, nella stessa avrebbero fatto carriera e, forti del carisma criminale, scalato le doti più elevate, conquistando i vertici della compagine e il rispetto da parte dei sodali e delle altre organizzazioni criminali che gli avrebbero consentito di continuare ad operare, con ruolo apicale, nell’interesse del gruppo.
Altri presunti sodali, seppur con un ruolo subordinato, avrebbero invece manifestato una perseveranza che gli inquirenti definiscono “di pericolosa dedizione”: elemento che si ricaverebbe dal ripetersi di condotte delittuose, dai riferimenti ad una convinta adesione alle regole di ‘ndrangheta, oltre che da una necessità di controllo del territorio che si sarebbe concretizzata eseguendo varie estorsioni utili a garantire alla cosca il comando dell’area di competenza.
IL CONTROLLO SISTEMATICO
Il gruppo, che avrebbe avuto a disposizione anche armi, attraverso il modo d’agire caratteristico delle associazioni mafiose avrebbe esercitato un controllo sistematico delle attività commerciali e dei cantieri edili.
Ancora, gli inquirenti spiegano che le vicende registrate offrirebbero uno spaccato della realtà reggina dove gli imprenditori sarebbero stati perfettamente a conoscenza del fatto che, ancor prima di intraprendere un lavoro, avrebbero dovuto informarne prima quei personaggi demandati dall’associazione a raccogliere le richieste e veicolarle a chi avesse il potere decisionale e quindi potesse concedere l’autorizzazione, ovviamente in cambio di denaro, assunzioni di manodopera e imposizione di forniture.
Inoltre, sotto il profilo del condizionamento delle attività economiche sono emersi dei tentativi di infiltrazione nel settore della grande distribuzione con l’intento di imporvi anche qui delle assunzioni.
IL “PROFUMO” DEL BERGAMOTTO
Le investigazioni avrebbero poi messo in luce i progetti imprenditoriali dell’associazione nel settore agrumario, in particolar modo in quello dei bergamotti, dove sarebbero state attive due società, intestate a presunti prestanome ma considerate riconducibili ad un associato, che espandevano i loro interessi commerciali utilizzando in alcuni casi quei metodi che sono peculiari della ‘ndrangheta.
Aziende per cui oggi sono scattati i sigilli. Contestualmente ai provvedimenti restrittivi personali, il Gip ha infatti disposto il sequestro preventivo di tre società, tutte con sede a Reggio, due delle quali intestate fittiziamente a terzi, ma di fatto nella piena disponibilità degli indagati.
GLI ARRESTATI
In carcere sono così finiti Antonio Autolitano (classe ’53); Antonio Autolitano (’88); Saverio Autolitano (’61); Vincenzo Autolitano (’82); Antonino “Nino” Ficara (’63); Carmelo “Memè” Gullì (’80); Domenico Modafferi (’90); Luigi Gino Musolino (’76); Antonino Nino Palumbo (’74); Demetrio Mico Palumbo (’49); Sebastiano Praticò (’52). Ai domiciliari è sottoposto invece Pasquale Federico (classe ‘51).
L’OPERAZIONE
L’operazione è stata eseguita dai Carabinieri del Comando Provinciale della città dello Stretto, con l’ausilio dello Squadrone Eliportato “Cacciatori” Calabria.
Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, diretta dal Procuratore Giovanni Bombardieri, sono state condotte dal Nucleo Investigativo dell’Arma sia con le classiche tecniche investigative, che con i più moderni strumenti d’intercettazione