Istat ed assistenza ospedaliera: al Sud insoddisfatto l’80-90% dei ricoverati
Uno scenario duplefax quello descritto dalla XX edizione del Rapporto Annuale Istat 2012 sulla situazione del Paese, che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”riporta.
Per la sanità rileva, ad esempio, come sui 111 miliardi di euro spesi nel 2010 dal Ssn, con una media pro capite a livello nazionale do 1.833 euro, vi sia una variabilità regionale nei consumi che raggiunge scarti fino a 500 euro: la P.A. di Bolzano spende mediamente 2.191 euro per ogni residente, la Sicilia 1.690.
I principali squilibri tra regioni si osservano, in particolare, per i servizi preposti alla presa in carico di pazienti cronici e alla gestione della post acuzie, in larga misura rivolti agli anziani e ai disabili.
L’assistenza domiciliare integrata (Adi), seppure sia andanta fortemente aumentando nel tempo, è ancora al di sotto dei bisogni, soprattutto al Sud. Ad eccezione di Abruzzo e Basilicata, tutte le regioni meridionali presentano valori al di sotto del target: in particolare, in Puglia e Sicilia gli anziani trattati in Adi sono circa la metà rispetto all’obiettivo fissato.
Eppure il “Patto della salute 2010-2012” aveva stabilito, come parametri di riferimento, una quota pari al 5% delle risorse complessive da destinare all’assistenza collettiva in ambiente di vita e di lavoro, una pari al 51% all’assistenza distrettuale e il restante 44% per l’assistenza ospedaliera. Rispetto a questa ripartizione delle risorse, solo Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana presentano una distribuzione della spesa sanitaria molto prossima ai parametri di riferimento, mentre per le altre regioni le risorse risultano ancora troppo spostate verso l’assistenza ospedaliera (soprattutto Lazio, Abruzzo e Sicilia) a discapito delle attività di promozione della salute e dell’assistenza distrettuale.
Gli indicatori utilizzati nella valutazione della qualità da parte degli esperti dell’Istat sono stati: appropriatezza, efficacia, soddisfazione dei servizi ospedalieri. E le discrepanze tra Nord e Sud emergono con altrettanta chiarezza: dall’analisi congiunta dei tre indicatori sintetici emerge che Piemonte, Valle d’Aosta, P.A. di Trento, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana sono le unità territoriali che presentano elevati livelli di qualità in tutte le dimensioni. All’opposto si collocano Campania e Sicilia, con bassi livelli di qualità in tutte le dimensioni. Le restanti regioni presentano un quadro più variegato come la Lombardia e la Basilicata, con elevati livelli di qualità per due delle tre dimensioni considerate, la provincia autonoma di Bolzano, il Friuli-Venezia Giulia, la Liguria, l’Umbria e le Marche con alti livelli di qualità in una sola delle tre dimensioni. In generale, le regioni del Sud presentano livelli qualitativi dei servizi sanitari inferiori al resto del Paese, con bassi livelli di appropriatezza e di soddisfazione dei servizi ospedalieri e livelli medio bassi di efficacia dei sistemi sanitari regionali.
In particolare, in relazione alla soddisfazione per i servizi ospedalieri (assistenza medica, assistenza infermieristica, servizi igienici) rilevata tra coloro che hanno subito almeno un ricovero nei tre mesi precedenti l’intervista, dal Rapporto Istat emerge che nel 2011 il 39% delle persone hanno dichiarato di essere molto soddisfatte sia per l’assistenza medica che per l’assistenza infermieristica, mentre la soddisfazione per i servizi igienici è pari al 3%.
Per tutte e tre questi aspetti si rileva una spiccata variabilità regionale: in tutte le regioni del Nord (con l’eccezione della Liguria) la soddisfazione è più elevata della media, al Centro solo l’Umbria presenta valori di soddisfazione più elevati della media per tutti e tre gli aspetti, mentre al Sud l’insoddisfazione per i servizi ospedalieri è molto diffusa e in alcune regioni riguarda l’80-90% delle persone che hanno subito un ricovero.
“Analizzando congiuntamente gli indicatori di soddisfazione a i dati relativi alla mobilità ospedaliera interregionale, appare evidente come – rileva l’Istat -, sebbene una quota di tale mobilità sia attribuibile alla vicinanza geografica di strutture situate in una regione diversa da quella di residenza, lo spostamento sia generalmente determinato da una carenza di offerta di servizi ospedalieri, o meglio di una offerta adeguata al bisogno di salute del paziente”.
Nel 2010 le dimissioni in regime ordinario di pazienti ricoverati in una regione diversa da quella di residenza sono state 555 mila (il 7,7%), mentre per il solo day hospital le dimissioni sono state oltre 226 mila, il 7,5% del totale.
La buona notizia è che comunque lì aspettativa di vita continua ad aumentare, soprattutto per la ridotta mortalità nelle fasce di età più avanzata e, in particolare, per malattie del sistema circolatorio e per tumori maligni, che ancora oggi costituiscono comunque oltre il 70% di tutti i decessi.
L’aumento della speranza di vita è andato di pari passo con importanti guadagni anche in termini di qualità della sopravvivenza: negli anni più recenti, ad un incremento della speranza di vita si associa infatti anche un aumento degli anni vissuti in buona salute. Anche se con qualche differenza tra uomini e donna. Nell’arco di 16 anni (1994-2010), infatti, la speranza di vita in buona salute a 65 anni è cresciuta do 2,4 anni per gli uomini e 2,2 per le donne.
Il vantaggio delle donne, così come per la sopravvivenza, si va progressivamente riducendo in quanto la maggiore longevità non è accompagnata da un miglioramento di pari entità della qualità della sopravvivenza. Le donne, infatti, sono affette più frequentemente e più precocemente rispetto agli uomini da malattie meno letali, come per esempio l’artrite, l’artrosi, l’osteoporosi, ma con un decorso che può degenerare in situazioni sicuramente più invalidanti.
Le donne risultano inoltre svantaggiate anche sul piano professionale, economico e domestico. In Italia la divisione dei ruoli di genere all’interno della coppia, infatti, è ancora tradizionale: l’uomo continua in moltissimi casi ad avere il ruolo di breadwinner e il lavoro domestico e di cura pesa soprattutto sulle donne, indipendentemente dalla loro condizione occupazionale. I dati dell’ultima Indagine Eu Silc, riportati dal Rapporto Istat, indicano che nei due terzi delle coppie in cui la donna ha tra i 25 e i 54 anni il suo contributo economico è nullo o inferiore al 40% del reddito della coppia. Inoltre, anche se non è trascurabile la percentuale di quante guadagnano redditi non distanti da quelli del partner, le donne che hanno una retribuzione più elevata sono una decisa minoranza: il 24,5% delle donne, infatti, percepisce un reddito compreso tra il 40 e il 59% di quello della coppia, il 6,2% un reddito compreso tra il 60 e il 99% e solo nel 2,2 per cento dei casi la donna è l’unica percettrice di reddito.
Guardando anche alla divisione dei carichi di lavoro domestico e di cura, in quasi un terzo delle coppie le donne non contribuiscono al reddito familiare e si fanno carico della totalità o quasi del lavoro domestico e di cura; quando c’è una qualche divisione con il partner, è la donna a farsene prevalentemente carico, mentre sono rarissimi i casi nei quali prevale un equilibrio. L’indice che misura l’asimmetria nella distribuzione delle ore allocate ai lavori domestici e di cura è sempre elevato, anche nei casi in cui la donna è l’unica percettrice di reddito (64%) e arriva ad un massimo dell’84% quando la donna non percepisce redditi.
Peraltro, molti studi hanno mostrato un’associazione statisticamente significativa tra fattori socio-economici (istruzione, reddito, condizione occupazionale, classe sociale) e condizioni di salute misurate sia in termini di prevalenza di patologie sia in termini di mortalità. Il risultato che emerge è che lo svantaggio sociale si associa a rischi più elevati di cattiva salute e di mortalità. Lo svantaggio più rilevante si osserva tra le donne con livello di istruzione più basso, le quali hanno un rischio di mortalità circa doppio rispetto alle donne della stessa età con titolo di studio più elevato. Fra gli uomini con bassa istruzione di età compresa tra 25 e 64 anni, il rischio di morire è dell’80% più elevato rispetto ai più istruiti. Infine, tra le persone anziane, le differenze nei rischi di mortalità non sono in generale significative: solo per gli uomini si osserva un’associazione significativa della mortalità con una istruzione media o bassa, con un incremento del 30% nel rischio di morte rispetto ai più istruiti.
Per quanto riguarda gli interventi e i servizi sociali a livello comunale, infine, nel 2009 la spesa è stata a 7,2 miliardi di euro (lo 0,46% del Pil nazionale), in aumento del 5,1% rispetto al 2008. Tuttavia nel Mezzogiorno la spesa sociale è diminuita dell’1,5%, mentre cresce del 6% nel Nord-est, del 4,2% nel Nord-ovest e del cinque al Centro.
I comuni spendono in media per i servizi sociali 116 euro pro capite, con un minimo di 26 euro in Calabria e un massimo di 295 euro nella P.A. di Trento. Si amplia il divario rispetto al 2008, quando i rispettivi valori erano 30 e 280 euro pro capite.
Per ogni disabile i comuni spendono in media 2.700 euro all’anno, ma per i disabili residenti nel Sud la cifra è di circa otto volte inferiore a quella del Nord-est (667 euro l’anno contro 5.438). Per l’assistenza agli anziani la spesa media dei comuni italiani è di 117 euro l’anno per ciascun residente over 65, con un minimo di 52 euro pro capite al Sud (sette euro pro capite in meno rispetto al 2008) e un massimo di 164 euro al Nord-est.
Resta bassa l’offerta di nidi pubblici, con notevoli differenze nella diffusione territoriale: i comuni in cui è presente il servizio sono il 78 per cento al Nord-est (83% in Friuli-Venezia Giulia e in Emilia-Romagna), circa il 48% e il 53% rispettivamente al Centro e al Nord-ovest, mentre nel Sud e nelle Isole solo il 21% e il 29% dei comuni ha offerto il servizio sotto forma di strutture comunali o sovvenzionate.