Ritirata protezione a collaboratore di giustizia, difensore scrive a Napolitano

Crotone Cronaca
Giorgio Napolitano

Sulla vicenda del collaboratore di giustizia campano al quale è stata negata la protezione, il difensore dell'uomo, avvocato Maria Grazia Scola, ha scritto una lettera aperta inviata al Capo dello Stato, al presidente del Consiglio dei ministri, ai ministri della Giustizia e dell'Interno, al Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Cassazione e alla Direzione nazionale antimafia. "Il mio assistito - scrive l'avvocato Scola - arrestato circa un anno addietro, iniziava a collaborare con l'allora titolare del procedimento dottor Pierpaolo Bruni applicato presso la Dda di Catanzaro. Dopo pochi giorni la Procura generale non ha piu' inteso prorogare l'applicazione del dottor Bruni alla Dda e pertanto quest'ultimo non si e' piu' occupato delle indagini in corso compresa quella riguardante il mio cliente.

Il 4 settembre 2009 il mio assistito inviava presso la Direzione distrettuale antimafia, Procura della Repubblica di Catanzaro, la richiesta di essere sentito al fine di rilasciare ulteriori dichiarazioni. Lo stesso avendo gia' svelato nomi, vicende e fatti criminosi rilevanti. La sua richiesta - afferma il legale - ha trovato assordante silenzio presso gli uffici della Procura calabrese. Dopo numerose quanto inutili anticamere nelle segreterie e nei corridoi della medesima Procura, il successivo 26 novembre, vista la mancata risposta degli inquirenti al mio cliente, io stessa reiteravo la richiesta nel suo interesse e nell'interesse collettivo del contrasto alle mafie". "A distanza di oltre due mesi - scrive ancora il legale - registravo ancora silenzio. Il 9 febbraio scorso, esasperata, inviavo nuova istanza e subito dopo contattavo la segreteria della Dda sollecitando, almeno, un appuntamento con il Procuratore titolare del procedimento. Appuntamento che finalmente veniva fissato per i giorni successivi e nel corso del quale pero', il magistrato mi informava che titolare dell'indagine era altro suo collega.

Il 15 e 16 febbraio inviavo nuova istanza con la quale chiedevo formale comunicazione in ordine alla titolarita' del procedimento e contestualmente insistevo nelle pregresse istanze. Il 17 febbraio perveniva, tramite fax presso il mio studio, comunicazione della Dda con la quale si indicava il titolare del procedimento, senza nessun cenno, pero' alle istanze del collaboratore e mie. Poi ancora silenzio. Il 22 febbraio inviavo nuova istanza al magistrato titolare.

Finalmente il 10 marzo 2010, un anno dopo l'inizio della sua collaborazione, il mio cliente e' stato interrogato. Ma il 19 maggio 2010, nella localita' protetta ove vive con il suo nucleo familiare, ha ricevuto la notifica del provvedimento con il quale la Commissione centrale per le speciali misure di protezione presso il ministero dell'Intemo, considerato che ai sensi della normativa vigente il piano provvisorio di protezione cessa di avere effetto se, decorsi centottanta giorni, l'autorita' legittimata a formulare la proposta non ha provveduto a trasmetterla, ritenuto testualmente "che si sono configurati i presupposti per la dichiarazione di cessazione degli effetti del piano provvisorio di protezione, risultando decorso il termine di cui alla citata disposizione", ha deliberato di non accogliere la proposta di adozione del programma di protezione e di revocare il piano provvisorio di protezione dei collaboratore di giustizia. Cio' avviene in una regione - commenta l'avvocato Scola - ove, e' notorio, i collaboratori di giustizia sono pochissimi; altrettanto notoria e' l'importanza delle loro dichiarazioni nella lotta dello stato alle cosche mafiose. Il mio cliente e il suo nucleo familiare sono da oggi formalmente soli. Un pezzo di Stato ha cosi' deliberato perche' un altro pezzo di Stato non ha rispettato forme e modi delle procedure. E allora, al di la' dei buoni propositi, di vecchi e nuovi piani antimafia da chiunque varati, e' questa la lotta che lo Stato intende approntare contro tutte le mafie? Qui e' in gioco, in primo luogo, l'incolumita' di un collaboratore di giustizia, di sua moglie, dei suoi bambini, ma e' anche in gioco la credibilita' di un apparato obbligato a conoscere ogni vicenda che possa svelare i meccanismi entro cui opera la criminalita' organizzata e a proteggere chi quei meccanismi aiuta a svelare".