Stuprata dal branco. Il papà: costretti a lasciare la Calabria e rifarci una vita lontani

Reggio Calabria Cronaca

Dopo essere stata violentata dal branco a soli 13 anni e aver denunciato i suoi aguzzini è stata costretta a lasciare la Calabria. È la triste storia che ha investito una famiglia di Melito porto Salvo, nel reggino, raccontata oggi dal Tgcom24.

Dopo che è venuta alla luce una terribile storia di stupri e prevaricazioni ai danni di una bambina, nel 2016 (LEGGI QUI), andati avanti per due anni, e dopo la condanna in primo grado dei presunti responsabili (LEGGI QUI), oggi tutti liberi o ai domiciliari, il paese ha praticamente costretto la ragazzina ad allontanarsi.

Il padre della giovane ha raccontato alla Stampa di aver denunciato ogni cosa dopo aver scoperto l’incubo che quei ragazzi avrebbero fatto vivere quasi quotidianamente a sua figlia: “Io e la mia ex moglie ce ne siamo accorti leggendo la brutta copia di un tema che nostra figlia aveva lasciato a casa”, dice.

La ragazzina frequentava la scuola media Corrado Alvaro, all’uscita da scuola veniva caricata in auto e portata al cimitero o in una casa in montagna a Pentedattilo, dove sette ragazzi la violentavano, secondo quanto si legge almeno dalle carte della Procura.

Cinque di loro sono stati condannati in primo grado dal Tribunale di Reggio Calabria, con pene che vanno da sei a nove anni di carcere.

Uno di loro, Davide Schimizzi, è il fratello di un poliziotto. Poi c’è Giovanni Iamonte, considerato come il “rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della 'ndrangheta”. E ancora, Michele Nucera, Lorenzo Tripodi e Antonio Virduci (figlio di un maresciallo dell'esercito).

Per i giudici del tribunale sarebbero stati loro degli ricattando la 13enne e la minacciandola: “Attenta che facciamo del male a mamma e papà”.

Ma dopo aver denunciato, il padre ha capito che il paese si sarebbe messo tutto dalla parte dei carnefici, per condannare una bambina abusata dal branco: era tutta colpa della ragazzina.

“ono andato dal padre di uno di loro, il più giovane, quello che all’epoca aveva 17 anni. Mi ha detto che mia figlia si stava facendo una brutta nomina in paese. Altri sono venuti a dirmi che non dovevo denunciare. Era come se la mia bambina si fosse meritata quella violenza”.

Adesso il padre e la figlia vivono lontano dalla Calabria: prima sono andati in una grande città del nord, messa a disposizione dall'associazione “Libera” di don Ciotti, poi si sono trasferiti altrove.

“Ci hanno aiutato, adesso ho di un nuovo lavoro - dice il padre -. Siamo indipendenti. Ma a Melito ho dovuto lasciare quello che avevo di più caro. Noi siamo qua, mentre quei ragazzi sono stati scarcerati in attesa del processo d'appello che comincerà a febbraio”.

Oggi la ragazzina di allora è cresciuta, si è diplomata con il massimo dei voti in una scuola professionale per diventare truccatrice a teatro e al cinema e ha trovato nuovi amici. E sta cercando, con l’aiuto del papà, di ricostruirsi una nuova vita.